“È inutile che lo spettatore cerchi nella visione di un'opera d'arte qualcosa che lo consoli. Troverà solo qualcosa che lo dilanierà. Starà a lui decidere come adoperarlo. Non si va a vedere il Botticelli o il Mantegna per avere gioia, pace e serenità”
Le parole di Lea Vergine, celebre curatrice d'arte, sono come saette su carta. Sembra che la sua personalità possa trasparire da queste poche righe: una di quelle donne che hanno attraversato le avanguardie, che hanno vissuto il fermento di anni in cui la cultura era esplosiva e hanno trasportato questa scintilla nella nostra epoca contemporanea, unita a una buona dose di anticonformismo e allergia agli stretti confini della società.
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Questa incredibile donna si è spenta il 20 ottobre all'età di 82 anni per complicanze dovute al Covid-19, un giorno dopo il marito, il pluri-premiato designer Enzo Mari, con cui ha condiviso un sodalizio di amore e cultura. Una lunga vita alla ricerca di stupore e bellezza.
“L'arte non è necessaria. È il superfluo. E quello che ci serve per essere un po' felici o meno infelici è il superfluo. Non può utilizzarla, l'arte, nella vita. Arte e vita sì, nel senso che ti ci dedichi a quella cosa, ma non è che l'arte ti possa aiutare. Costituisce un rifugio, una difesa. In questo senso è come una benzodiazepina”
Lea Vergine, al secolo Lea Buoncristiano, nasce il 5 marzo 1936 a Napoli. Tutta la sua vita sembra impressa in un'orma anticonvenzionale: padre borghese, madre estranea a quel mondo, viene concepita fuori dal matrimonio, a cui sono poi costretti i genitori, per salvare le apparenze, che però finiscono per detestarsi e vivono separati nello stesso palazzo, Lea con il padre e i nonni, la madre con i figli più piccoli, che poi moriranno. Lea è una creatura ibrida, cultrice della femminilità, che vede dapprima in un rapporto complesso e contraddittorio con la madre, dotata dello “sguardo sbigottito” sulla vita del padre e consumata da un dolore come una “maceranza dell'anima”.
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La sua carriera artistica esplode negli anni '60 quando si trasferisce a Milano, dove si trova al centro di un ambiente culturale ricco e dalle prospettive vertiginose. È stata critica, curatrice di mostre, saggista, collaboratrice per quotidiani come Il Corriere della Sera e Il Manifesto.
Sua opera seminale è il libro Body art e storie simili, Il corpo come linguaggio, prima opera italiana ad analizzare il fenomeno della Body Art, corrente che vede nell'utilizzo del corpo un mezzo per fare arte. Attraverso riflessioni personali e l'analisi delle opere di oltre 60 artisti crea un testo di ricerca e analisi che avrà grande successo e influenzerà le successive correnti di pensiero.
Il suo occhio è proiettato verso l'arte contemporanea, che dietro un'apparente semplicità, una “bruttezza”, un assenza di regole, cela significati nascosti e preziosi, per chi li sa cercare.
Il femminile è un elemento imprescindibile nell'universo di Lea Vergine. Lo sguardo della donna, storicamente subalterno, contiene qualcosa di sovversivo, uno “smarginamento” degno di essere valorizzato. Per questo ha sempre cercato di esaltare e mettere in luce i lavori delle artiste: impossibile a riguardo non citare la mostra L'altra metà dell'avanguardia (1910-1940), organizzata nel 1980 al Palazzo Reale di Milano, dedicata alle opere di pittrici e scultrici nei gruppi delle avanguardie.
Figura acuta, attenta ai cambiamenti della società, osservatrice di persone e personalità, amante della scrittura e del potere della parola, si è scagliata con energia contro il sessismo (negli anni '60 fa causa a un giornalista che a una conferenza d'arte sostiene che il pubblico sia venuto solo per vedere le sue gambe, non per ascoltarla) e per tutta la vita è andata alla ricerca di una bellezza difficile, tragica nascosta, della bellezza dell'arte che come diceva provocatoriamente “non è una faccenda per persone per bene”.