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L'aborto, l'America e la storia rovesciata

Con l’abolizione del Roe v. Wade, l’America riavvolge la macchina del tempo e lascia i cittadini (americani e non) di fronte a un baratro di ulteriori conseguenze

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Sia fatta la tua volontà. Per modo di dire almeno. Il 24 giugno 2022 si è aperto un nuovo vaso di Pandora, che anche questa volta ha alle spalle un difficile scenario politico: la Corte Suprema degli Stati Uniti, con in mano 213 pagine di spiegazioni all’insegna dell’anticostituzionalità, ha fatto inversione di marcia sulla storica sentenza Roe v. Wade.

Come ci ha tenuto a sottolineare il più importante tribunale americano di stampo trumpiano, la decisione non ha stabilito illegale la pratica dell’aborto, ma l’ha rimessa alla volontà giuridica dei singoli Stati. E i singoli Stati hanno quindi risposto alla chiamata: Utah, South Dakota, Kentucky, Oklahoma, Missouri, Arkansas per iniziare, senza contare le numerose proteste, rivolte e dibattiti che stanno spaccando gli Stati Uniti.

 
 
 
 
 
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E le prime drammatiche conseguenze non tardano ad arrivare: in Texas, assaporando letteralmente un clima di anteguerra, è tornata in vigore una legge del 1925, che vieta l’aborto e punisce con il carcere coloro che vi ricorrono; in Ohio, dove il limite per abortire è stato imposto a sei settimane, è diventato tragicamente emblematico il caso di una bambina di dieci anni, vittima di stupro e ora incinta di poco oltre il limite stabilito; di fronte all’impossibilità di interrompere la gravidanza, la piccola, così come altri casi di donne nella medesima condizione, si è trasferita nella vicina Indianapolis, dove il divieto non è ancora arrivato.

Ma è una corsa contro il tempo prima che i governi si adeguino agli Stati confinanti. 

 
 
 
 
 
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Fatto sta che lo storico passo indietro degli Stati Uniti non appare decisamente piovuto dal cielo, né tantomeno da un Dio punitore di anni di libertà sul proprio corpo - “È stata fatta la volontà di Dio” ha sentenziato a caldo l’ex presidente Donald Trump.


La sentenza sembra proprio stagliarsi sul panorama americano e mondiale come un leviatano a più volti; volti che riportano le fattezze di Brett Kavanaugh, Amy Coney Barrett, Clarence Thomas, Samuel Alito, Neil Gorsuch e John Roberts, i sei giudici ultra conservatori che hanno votato per l’eliminazione del diritto.

È un leviatano che tuttavia ha già apertamente dichiarato di non voler arrestarsi qui e di puntare, presto o tardi, a “riconsiderare le sue passate sentenze che riconoscono i diritti all’accesso alla contraccezione, alle relazioni omosessuali e al matrimonio tra persone dello stesso sesso”. Tradotto in altri termini, privacy e, a monte di tutto, libertà. 

L’abolizione del Roe v. Wade spalanca già adesso le porte a uno scenario di incertezze, portatrici di enormi disparità sociali: al New York Times, la senatrice democratica Elizabeth Warren ha condiviso ipotetiche misure per aggirare la situazione, dai fondi per risarcire le spese di viaggio di coloro che dovranno cambiare Stato per abortire, all’apertura di cliniche in terreni federali, lontano dalla giurisdizione statale.

Così come Netflix, Disney, Uber, Levi’s, Nike, Apple, Microsoft sono solo alcuni nomi di big che hanno deciso di pagare gli eventuali costi del viaggio per i loro dipendenti. Più facile a dirsi che a farsi: cosa ne saranno delle lavoratrici in proprio? E dell’ampia fetta di popolazione in precarie condizioni economiche e lavorative?

Anche lo slancio di generosità dal mondo corporate solleva una serie di questioni di non poco conto: cosa ne sarebbe del diritto alla privacy di migliaia di donne, che si troverebbero per forza maggiore ancora più vincolate ai loro datori di lavoro? E della quantità di dati sensibili che dovrebbero ovviamente condividere con essi? Sarebbero davvero immuni da guai legali? 

 
 
 
 
 
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La paura di una caccia alle streghe da parte degli Stati contrari già dilaga per l’appunto: migliaia di donne sul suolo americano stanno disinstallando le app di tracking del ciclo mestruale e cancellando le eventuali cronologie sulle cliniche abortive.
Tutta questa serie di interrogativi al momento senza risposta riconduce alla testa del problema, che fu poi il “cavillo” da cui nacque Roe v. Wade: la libertà personale. 

Sono state proprio quelle parole, apparentemente scontate, del XIV emendamento a permettere la conclusione del caso Jane Roe a favore della sentenza successiva: nel 1973, appellandosi all’impossibilità di “qualsiasi Stato [di] privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà” si fece leva sul diritto alla libera scelta in merito a questioni della sfera intima, che non potevano non includere la libertà procreativa; di qui si aprirono tutta una lista di ulteriori passi avanti, tra cui il diritto alla privacy. 

 
 
 
 
 
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Le parole quindi di Clarence Thomas all’indomani della sentenza, cioè che la Corte Suprema ha portato a termine il “compito di correggere gli errori stabiliti in alcuni precedenti” pesa come un macigno non solo sulle singole vittorie legali, ma sulle nostre libertà personali.
E pesano ancora di più se si considera che, per arrivare a questo punto, il Tribunale più importante degli Stati Uniti ha accantonato una lunga serie di principi, quali imparzialità, integrità e continuità.

Svetta sicuramente in questa analisi il fondamento dello stare decisis (dal latino, restare sulle cose decise), secondo cui la Corte, nell’esprimere giudizi e sentenze, dovrebbe tenere in considerazione quanto stabilito in passato, salvo casi di rara eccezionalità e gravità; e questo non per monolitismo governativo, ma per garanzia di equità giurisdizionale, che si eleva sopra ogni credo politico. 

Ma allora, volendo allargare la questione, quale sarebbe l’eco che potrebbe arrivare nel Vecchio Continente? Ci basteranno le parole dell’UE per mantenere saldo il diritto?
Il problema ha, anche qui, parecchie sfaccettature, che non riguardano solo un generale benaltrismo. Volendo noi italiani dormire sonni tranquilli sulla comoda legge 194, ci basterebbe una rapida fotografia di percentuali e studi per renderci conto che lo status dell’aborto tra le regioni non è così roseo.

 
 
 
 
 
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L’Italia occupa un posto relativamente basso tra le nazioni che praticano l’interruzione volontaria della gravidanza (solo nel 2020 sono stati registrati meno di 68mila interventi, un 7,6% in meno rispetto al 2019), confermando da una parte una predilezione per l’uso della pillola abortiva e, dall’altra, un altissimo numero di medici obiettori di coscienza.

Secondo uno studio del 2012 curato da Silvia De Zordo, antropologa all’Università di Barcellona, tra i ginecologi contrari alla pratica sarebbero da annoverare non solo coloro mossi da fede cattolica, ma anche, e soprattutto, da fede pecuniaria e lavorativa, per così dire: considerando l’aborto un’operazione di routine e quindi poco gratificante, molti, soprattutto primari e obiettori, ne affidano l’esecuzione ai medici più giovani, facendo sì che in molti ospedali coloro che praticano l’operazione siano in pochi; d’altro canto, tra le nuove generazioni, si finisce poi con il dichiararsi in larga parte contrari all’aborto, per poter avanzare nella carriera.

Di pari passo con tutto ciò, la causa pecuniaria: in Italia l’interruzione volontaria di gravidanza è un’operazione non praticabile e quindi non monetizzabile intra moenia, cioè nel dominio della libera professione dei singoli ginecologi. 

 
 
 
 
 
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Le disparità poi a livello regionale sono elevatissime: solo nella provincia autonoma di Bolzano l’84,5% dei medici si professa obiettore, così come l’Abruzzo, con l’83,8% o il Molise, con l’82,8. Al netto dell’analisi le considerazioni sono quindi molteplici: l’ingiustizia non riguarda la sola oppressione della libertà di ogni donna di agire come meglio ritiene sul suo corpo, ma anche il venir meno del diritto alla privacy e della sicurezza in merito alle nostre libertà fondamentali.

Libertà che vengono spazzate via in un nonnulla, in un caso, o sfruttate per comodi altrui e celate sotto al velo dell’apparente conquista dei diritti civili.