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Hustle culture? No, grazie. La coraggiosa generazione YOLO

Un nuovo stile di vita

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You Only Live Once, that's the motto. Chi l’avrebbe mai detto che una strofa di Drake potesse riassumere la nuova filosofia di millennials e nativi digitali. YOLO, l’acronimo citato dal rapper canadese si può tradurre con si vive una volta sola, discendente diretto dell’ormai inflazionato carpe diem: indica un approccio al mondo del lavoro in cui ad essere centrale non è la carriera ma il benessere lavorativo.

 
 
 
 
 
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Partiamo dal Randstad WorkMonitor 2023, report annuale della nota società di recruiting, condotto in 35 paesi del mondo, secondo cui:

  • Il 61% degli intervistati non accetterebbe un impiego che mini l’equilibrio vita-lavoro (percentuale che sale al 74% nei giovani).
  • Il 45% non rinuncerebbe alla flessibilità oraria; il 40% alla modalità da remoto.
  • Il 42% rifiuterebbe un’azienda i cui valori non sono in linea con i propri.

Numeri che delineano una vera e propria rivoluzione culturale, accelerata dal periodo pandemico. Se da un lato è mancata la socialità, fisiologica in tutti i posti di lavoro, dall’altro si è riscoperto il valore del tempo libero; il desiderio di diminuire formalismi e convenzioni; la necessità di conciliare carriera e famiglia.

 
 
 
 
 
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Ma il dato che stupisce maggiormente è che più del 50% degli intervistati è sicuro di trovare un nuovo impiego qualora dovesse rinunciare o perdere quello attuale. È la voce delle generazioni più giovani, che non temono il licenziamento o il precariato. Lottano, inconsciamente forse, per invertire il trend del mondo del lavoro, in cui dominano svalutazione di competenze e persone, paghe misere legalizzate da contratti surreali e minime possibilità di crescita umana e personale. Tutto questo ha un nome: hustle culture. Un modello in voga in Occidente tanto quanto tra i giganti socialisti d’oriente (mai sentito parlare della favoletta di Stachanov?), che eleva a unico dogma la rinuncia a tutto in nome dell’ambizione lavorativa; che etichetta come perdente chiunque non pensi solamente al lavoro. Comandamenti di un fanatismo che germoglia già negli ambienti universitari: non serve citare la cronaca recente per evidenziarne i risultati tragici.

 
 
 
 
 
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Ne seguono dimissioni a cascata (2,2 milioni quelle registrate l’anno scorso) e divorzi dal posto fisso, sacro secondo il mantra zaloniano, nel nome del più attuale lavorare dove e quanto si vuole, alla base del nomadismo digitale. Ecco affiorare storie di sfruttati travestiti da stagisti e apprendisti, che mostrano le loro reali condizioni: se poi trovano persone come Alessandro Mancini, giornalista e fondatore della pagina Instagram Generazione Yolo, queste fanno ancora più rumore.

 
 
 
 
 
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Quali strade percorre chi ha deciso di cambiare approccio? C’è chi prova a fare della propria passione una professione, diventando content creator, twitcher, web editor, social media manager. Oppure chi cerca realtà in cui è prestata maggiore attenzione al welfare aziendale, al mantenimento del lavoro flessibile e dove, magari, si sperimenta la settimana lavorativa di quattro giorni.

 
 
 
 
 
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La voglia di dire basta a un sistema logoro, di migliorare le proprie condizioni, da molti è vista come una scelta coraggiosa; persino sostenuta in tanti paesi. Eppure in Italia, dove i report evidenziano un allineamento con le esigenze degli altri paesi analizzati, c’è la sensazione che le nuove generazioni avanzino troppe pretese: l’artiglieria Boomer è sempre pronta a sparare vuoti giudizi, a suon di i giovani d’oggi non hanno voglia di faticare e ai nostri tempi ci si accontentava. Forse ricordare che non sono stati loro gli artefici del benessere in cui sono cresciuti, e che invece hanno contribuito largamente al disagio attuale, aiuterebbe a capire che quelli della generazione Yolo non sono capricci. Di strada da fare ce n’è ancora, cominciare da un dibattito trasparente è il primo passo.

Image Javier Allegue Barros on Unsplash