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Festa della donna s.p.a.: il nuovo business del “femminismo”

Un'occasione per parlare di tematiche importanti o l'ennesimo tentativo di usare il femminismo per venderci la serata al baretto? Ai posteri l'ardua sentenza.

Di

Ingredienti per la ricetta del giorno:
1 etto di pinkwashing

500 grammi di girlpower

500 ml di empowerment

Una spolverata di mimose

E il gioco è fatto: l'8 marzo è pronto per essere infornato e servito.

Ora si scherza, ma ogni anno la Festa della Donna genera tutta una serie di movimenti, di convergenze, di dibattiti che fanno venire il mal di testa.

 
 
 
 
 
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Sicuramente nelle sessioni di “scrollaggio” su Instagram o quando passate distrattamente le storie, avrete visto sbucare come funghi in questi giorni, ad e pubblicità di iniziative legate alla festa della donna, dalla serata 10 euro tutto incluso, all'offerta ceretta speciale per l'8 marzo. Ed è decisamente bizzarro che una festa che dovrebbe essere dedicata a rappresentare metà della popolazione globale si riduca a ciò.

Fenomenologia della festa della donna

Perché ricordiamolo, la Festa della Donna non nasce, come molti credono, dalla commemorazione di un incidente avvenuto nel 1911 in una fabbrica di New York dove persero la vita alcune operaie, ma nasce da una serie di decisioni “burocratiche” da parte delle attiviste socialiste americane, che volevano istituire una festa dedicata ai diritti delle donne e al loro posto in società. Qualcosa di molto politico insomma.

Fino a qualche anno fa abbiamo assistito a un imbarazzante “spogliamento” di questa essenza sociale, perché ricordiamolo, le donne hanno solo interessi “superficiali” e andare incontro alle loro esigenze significa scontare un prodotto qualunque l'8 marzo e via, buona festa della donna. Fortunatamente, con una diffusione più capillare di tematiche femministe qualcosa sta cambiando. Assistiamo sempre più spesso all'organizzazione di cicli di incontri, promozione di libri, condivisioni di esperienze, che ci portano a capire qual è il nostro posto nel mondo e il peso che il nostro pensiero dovrebbe avere nell'ambito pubblico.

 
 
 
 
 
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D'altro canto, quando un tema complesso si diffonde su larga scala finisce inevitabilmente per “appiattirsi” e trasformarsi in un logo, comodo per fare gola, ma serve davvero a progredire? In quest'ottica si inserisce il fenomeno pinkwashing, dove basta appiccicare una patina apparentemente femminista, con tanti slogan altamente empowering, ma che sono appunto slogan. È bello sentirci dire che siamo importanti, potenti e che valiamo, ma quando non lo siamo veramente nella realtà ha davvero senso?

Possiamo definire femminista una campagna, apparsa in questi giorni nelle  affissioni della nostra capitale, dove viene definito “empowering” il diritto di non abortire, affinchéche possano nascere più donne?

La parità non passa attraverso un giorno, uno slogan, una distorsione di un messaggio: passa attraverso la concretezza, l'autodeterminazione, il riconoscimento della parità.

Sfide assolutamente urgenti per il nuovo mondo, anche alla luce degli ultimi due anni, tra pandemia e incertezze per il futuro, che hanno fortemente impattato le donne dal punto di vista del lavoro, della salute, delle opportunità, con una crescita esponenziale di casi di violenza. Le situazioni di crisi si sa, si ripercuotono maggiormente su chi è già in una situazione di debolezza. Ma devono invece tramutarsi in un'occasione per costruire qualcosa di giusto, qualcosa di nuovo, perché l'immagine di un mondo più equo passa anche attraverso la parità, non solo un giorno all'anno. Auguri a noi dunque, sempre.