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Perché i Maneskin non rappresentano nessuna rivoluzione musicale

La fotografia di un ingranaggio perfettamente riuscito e degno del podio del palco di Sanremo

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No, non sono una critica musicale e no non ho nessuna intenzione di dare una qualche delucidazione illuminante sull’argomento Maneskin. A volte scrivere si dimostra compagno utile per dare forma alle riflessioni.

Ma bando alle chiacchiere, parlando del motivo per cui sto scrivendo: dalla loro prima apparizione a X Factor, la band ha stregato la maggior parte degli occhi (anche i miei) incollati allo schermo e l’intero, ahimè, ormai concetto lontano, pubblico in studio. Era il 2017.

Non si è trattato di un exploit musicale. “Chosen” l’inedito di presentazione non ha destato l’interesse di nessun mentore musicale nell’immediato. E non si è trattato nemmeno di un impattante messaggio piano estetico. Il gruppo si è palesato sul palco fresco d’estate con un abbigliamento (brutto) reduce da festival di musica simil tribal.

Quanto alla capacità di reggerlo il palcoscenico, beh questa, fin dall’inizio, è stata un’altra storia.

Da subito i quattro ragazzini hanno dato dimostrazione del loro carattere animalesco, mettendo in piedi uno spettacolo che sarebbe televisivamente durato per i tre mesi successivi e che ogni volta avrebbe avuto la sacrosanta sfacciataggine di togliere il fiato.

 
 
 
 
 
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Poi, finisce X Factor, la loro seconda posizione suscita polemiche addosso a un primo Lorenzo Licitra che già prima di vincere aveva deciso di alzare le tende e la band comincia un tour di cover: io c’ero.

Ancora una volta, da perfetto esperimento da talent a Santeria Social Club, i Maneskin si riconfermano animali da palcoscenico. La personalità che li contraddistingue individualmente e che li rende parte di uno strategico ecosistema è la chiave vincente. E alla domanda: “Perché ti piacciono i Maneskin?” non c’è più bisogno di rispondere.

 
 
 
 
 
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È un’altra però la questione a sorgere spontanea: “Cosa faranno dopo?”, perché il tour di cover se lo fanno andare bene i poco pretenziosi ma poi, anche per loro, arriva il momento d’iniziazione all’album.

Ottobre 2018 esce “Il ballo della vita” che non è all’altezza delle aspettative e nonostante il film del making of a rimpinguare un’idea perlopiù mancante fa emergere un’altra impareggiabile caratteristica della band di Monteverde: la meticolosità. Pignoli, perfezionisti, ambiziosi, fanno, infatti, quello che farebbe un normale ragazzino della loro età, se ne vanno. A “studiare” a Londra.

 
 
 
 
 
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Arriva dopo un anno e mezzo il momento del ritorno a casa, il momento di “Vent’anni”, una dichiarazione d’amore plateale ai 70s che si nutre, però, di un’evoluzione musicale non indifferente. La definiscono ballata contemporanea. Ma attenzione, nessuna rivoluzione in atto. Semplice fenomenologia di una band esplosa ad un’età anagrafica poco consapevole che piano piano coglie i frutti della sua parvente maturità.

 
 
 
 
 
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Marzo 2021: la band vince Sanremo conZitti e buoni”.

 
 
 
 
 
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Va bene, va bene tutto purché non si gridi alla rivoluzione. Perché meticolosità non è sovvertimento delle regole e a volte basta fare qualcosa, ça va sans dire, e farlo bene. Big up @maneskin!