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Frammenti di Regia: episodio 2

Viaggio attraverso il mondo della regia con brevi considerazioni e qualche aneddoto in ordine sparso, più qualche consiglio (non richiesto) per i più giovani.

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Un critico, c’è sempre una pletora di critici che aspettano un regista al varco, decretò che un regista è bravo se sa fare almeno una di tre cose: saper piazzare e muovere la cinepresa, saper dare un ritmo al montaggio, saper dirigere gli attori. Se poi ne sa fare due è un fenomeno e ci si trova di fronte ad un gigante se è capace in tutte e tre. Mah!

Sono tre aspetti che delineano superficialmente tre rispettive regie: teatrale, televisiva e cinematografica. Il regista teatrale ha un rapporto prioritario con gli attori, condividendo mesi di prove continue e faticose. Il regista televisivo, soprattutto per le dirette è come un giocatore di scacchi che conosce già le successive quattro/cinque mosse, deve avere in mente la successione delle inquadrature come stesse in sala di montaggio. Il regista cinematografico ha un rapporto viscerale con la prospettiva e con il movimento della macchina da presa, quasi come questa fosse un feticcio. Ma alla fine tutto riconduce a gusti personali.

 
 
 
 
 
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La regia audiovisiva ha poche regole grammaticali, una su tutte: “Lo scavallamento d’asse”. Se un personaggio entra da destra deve uscire a sinistra, così come in un dialogo un personaggio viene ripreso dal profilo che volge lo sguardo a destra e l’altro lo volge a sinistra. Una logica paragonabile alla nostra Consecutio Temporum. Poi c’è la prospettiva. Qui si entra nelle scelte artistiche di un autore: si può essere corretti e per così dire “puliti” o scegliere di essere anarchici e andare “sull’astrattismo”. Ci penseranno i critici a definirne la fattura e ci penserà il pubblico a stabilirne il successo.

 
 
 
 
 
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Un grande artista italiano, il pittore Michelangelo Pistoletto, ha rilasciato tempo fa un’intervista dove grosso modo affermava: “Io oggi più che mai mi sento un uomo libero e questo mi comporta una grande responsabilità. Oggi io faccio un Arte di responsabilità”. Gran bel concetto.

Cosa significa fare la regia di un allestimento stà proprio nella parola responsabilità. Il regista è il responsabile di tutto lo spettacolo messo in scena. Sue sono le scelte finali e sua è la responsabilità del lavoro degli altri, nel bene e nel male.

La regia non è un mestiere che si possa insegnare, bisogna “rubarlo” con gli occhi e più si lavora, più si impara.

Bisogna assolutamente diffidare di tutte quelle scuole, corsi universitari compresi, che pretendono di insegnare Regia; sono tutte cialtronate e come dice il detto: “Chi non sa fare, insegna.” 

L’unica strada per un giovane, che non sia presuntuoso è quello di andare a “bottega”. Si affianca un regista affermato prima come volontario, poi come assistente; se si conquista la fiducia del Maestro si diventa Aiuto regista. Qui si aprono due strade: o si rimane Aiuto per professione e lavorando anche per altri registi ci si assicura una vita economicamente serena (almeno una volta era così, facendo due film l’anno) o se presi dal sacro fuoco, si tenta la via del debutto in regia, con tutti i suoi rischi economici ed esistenziali.

 
 
 
 
 
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Ricordate? “Ma voi siete ricchi di famiglia…Visconti nasce nobile e fin da ragazzino viene abituato a una vita agiata; Fellini nasce plebeo, arriva a Roma magro come un chiodo e per sbarcare il lunario fa il vignettista e i ritratti ai militari. Ambedue diventano i titani del cinema italiano; avevano le stesse motivazioni, pur facendo un cinema completamente diverso l’uno dall’altro.

Il grande rischio per un autore è quello di innamorarsi perdutamente della sua opera, di perdersi nel narcisismo del “film della vita”. In Italia, senza fare nomi, ci sono stati casi eclatanti di sceneggiature portate avanti per più di venti anni: “Corto Maltese”, “Caruso”, “Celestino V”, per fare degli esempi che in pochi conoscono. Lo stesso Fellini era ossessionato nel realizzare “Il viaggio di Mastorna”, ideato nel 1965 e che per tanti motivi non riuscì mai a portare a termine; ci ha lavorato fino alla sua fine, 1993.

 
 
 
 
 
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Non è necessario studiare Freud per fare il regista, basta l’esperienza di vita per saper interloquire con gli altri; in fin dei conti la regia è il risultato delle proprie esperienze. 

Un altro rischio per il regista è quello di cadere in una sorta di “Sindrome di Stendhal” causata dal Primo Piano. Fissare a lungo il fotogramma di un primo piano, che sia in un monitor televisivo o in una moviola in montaggio, significa scrutare l’anima del personaggio, entrare con lui in totale empatia scoprendone tratti di personalità, ai più sconosciuti. A lungo andare, si diventa una sorta di mentalista capace di carpire personalissimi segreti. E’ esaltante all’inizio perché ci sente più simili a una Divinità, però col tempo diventa devastante per la propria psiche.

Continua

 

 

Credit Images: Photo by KASHILEMBO WABU on Unsplash