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Cosa significa essere una giornalista sportiva (e occuparsi di calcio) in Italia?

Abbiamo incontrato Valeria Ancione, giornalista professionista al “Corriere dello Sport”, che ci ha raccontato le difficoltà che si incontrano quando sei donna e parli, per lavoro, di chi gioca a pallone.

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La vita di una donna nel mondo dello sport non è facile, a prescindere. È un problema che accompagna noi donne.

Perché oltre gli stipendi più bassi, la poca considerazione in ambito politico, dobbiamo pure penare se decidiamo che la nostra vocazione è il mondo del calcio.

Valeria Ancione, messinese di origine, è giornalista sportiva da quasi trent’anni (nel 2019 ha scritto Volevo essere Maradona” che vi consigliamo di leggere). Dal basket al calcio ha sempre seguito le donne che corrono. Ma che cosa significa per una donna voler vivere di uno sport per antonomasia maschile? Glielo abbiamo chiesto.

 
 
 
 
 
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Ciao Valeria, cosa significa, da donna, lavorare nel mondo dello sport in Italia?

Significa sentire la diffidenza e la supponenza, soprattutto se si parla di calcio. E significa sentirsi dire, dopo trent’anni di professione, che Italia-Brasile dei Mondiali femminili 2019 non la fai tu ma un uomo perché “sai… è una partita speciale” (da maschio, aggiungo io, da chi ne capisce di calcio); e così pure la partita dei quarti di finale, non ti si dice niente, ma quando arrivi al giornale convinta che sia la tua partita, la più importante perché per l'Italia è come una finale, scopri che la cronaca è affidata al collega e a te gli spogliatoi: ma come non ero io a occuparmi di calcio femminile?

Sì, finché non conta niente, quando inizia a contare però scansati che se ne occupano gli uomini. Nel mio caso, in un giornale sportivo maschile e ahimè maschilista per tradizione e cultura, se vuoi parlare di calcio devi essere “maschia”. E in generale se sei donna e vuoi fare una cosa da uomo, perché ancora ci sono le cose da uomo, devi dimostrare continuamente qualcosa, cioè qualcosa in più. Purtroppo però quello che dimostri evapora e se ogni giorno non rinnovi e imponi la tua presenza, il valore aggiunto non è utilizzato semplicemente perché non è riconosciuto. Cosa significa dunque? Per me è significato un po’ una resa.

 
 
 
 
 
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C’è un momento in particolare che ricordi averti avvicinato al calcio femminile?

Ricordo perfettamente: nell’ottobre del 2013 ho deciso di raccontare le calciatrici, che allora “non esistevano”. Ho iniziato a fare interviste che si sono trasformate in brevi racconti di vita. E grazie a questo ho incontrato donne straordinarie che per giocare a calcio facevano i salti mortali. C’era l’elettricista, la giardiniera, quella che lavorava al museo e quell’altra in rosticceria, qualsiasi cosa per potersi permettere di giocare a un pallone che non pagava affatto o pagava poco.

Poi certo c’erano quelle come Patrizia Panico che facevano le professioniste del pallone, ma erano poche, stiamo parlando di cinque anni fa e anche meno, non un secolo. Il calcio femminile poi è diventato la mia battaglia sociale, contro la discriminazione, i pregiudizi, alla ricerca di spazi per dar voce alle calciatrici che per me sono le nuove femministe, quelle che sul campo correndo appresso a un pallone si battono per la parità di diritti. Nel 2015 è iniziata la vera rivoluzione e io ero con loro.

Quell’anno il presidente della Lnd, Belloli, apostrofò le sue tesserate come “quattro lesbiche”, lì il movimento femminile ha detto basta per sempre e in autunno c’è stata la riforma della Figc, sollecitata dalla Uefa, che ha obbligato i club professionistici ad avere un settore giovanile femminile. Mai più insulti, rispetto e richieste precise come quella del professionismo. Il cammino è lento e lungo.

 
 
 
 
 
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Che difficoltà affronta una bambina che vuole fare la calciatrice?

Oggi l’unica difficoltà che può incontrare è il pregiudizio dei genitori. Ce ne sono ancora tanti che non vogliono far giocare a pallone le figlie perché è uno sport da maschi, fa le gambe grosse e possibilmente si viene contagiati dal virus dell’omosessualità.

Che amarezza. Pensa che immagine delle calciatrici è stata costruita negli anni. Per il resto è facile, ci sono le scuole calcio per bambine, ma dove queste non ci sono ormai non è una cosa strana vedere ragazzine in squadre di maschi, fino a 14 anni possono giocare assieme infatti.

 
 
 
 
 
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C’è stata una crescita a livello globale della disciplina? E in Italia?

La crescita del calcio femminile in Europa e nel resto del mondo è stata costante e importante. I numeri delle tesserate in Germania, Svezia, Inghilterra, Olanda, per dirne alcune, sono impressionanti, intorno alle duecentomila. L’Italia è molto indietro: siamo arrivate a trentamila, tra senior e junior, grazie all’effetto Mondiale 2019 e anche ai grandi club che hanno ormai tutte le categorie del femminile dalle piccolissime fino alla serie A.

Poi, ovvio, anche grazie alla televisione, che prima e durante il Mondiale ci ha davvero bombardato e ha dato vita ai personaggi, ha raccontato storie, ha creato nuovi miti per le ragazzine (speriamo), un po’ quello che avevo fatto io tra giornale e sito, ma le tv hanno un potere non paragonabile alla carta stampata. Negli Stati Uniti il calcio femminile è molto seguito e ha più considerazione del maschile: Alex Morgan, che credo sia la calciatrice più pagata al mondo, è sposata con un calciatore, Carrasco, ma lei è molto più famosa, ricca e importante di lui. Poi c'è il Giappone che è una potenza.

 
 
 
 
 
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La poca attenzione che viene riservata al calcio femminile è dovuta alle poche piattaforme che gliela concedono?

Certo la visibilità è fondamentale e fino ai Mondiali non ce n’era. Ora ci sono Sky e TimVision, e poi sui social si trova tanta roba, sono aumentati i siti di calcio femminile, si possono vedere interviste e gol, ma siamo lontanissimi dal calcio maschile, come in molte cose, diciamo che le donne te le devi andare a cercare. Quindi se sei interessato cerchi e trovi. Se non lo sei non lo sai.

Va anche detto che da quando sono entrati i top club avere un’intervista a una calciatrice è quasi impossibile per noi della carta stampata. Una volta alzavo il telefono e chiamavo, non è più così. Dicono perché trattano le donne come gli uomini, mi viene da ridere vista la differenza di stipendi e non solo… Il risultato è che l’anno scorso appena esplosa la pandemia il campionato si è fermato e i riflettori si sono spenti, delle donne non si è più parlato e saputo niente. Finito l’effetto Mondiale, senza campionato e quindi tv, sono scomparse.

 
 
 
 
 
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Ti è mai capitato di confrontarti con qualcuno che sminuisse il calcio femminile?

Sempre. Ancora oggi che le donne del calcio sono sdoganate! Durante i Mondiali di Francia, dove le azzurre erano le protagoniste del momento e anche l’orgoglio del Paese, visto che gli uomini non si erano qualificati ai loro mondiali, è stato un continuo di “sì però non è calcio, è un altro sport” ; “sì però sono lente”. In definitiva il calcio femminile è “sì però… Non si riesce a guardare una partita di pallone di donne senza questo “sì però”, e godendo dello spettacolo, uguale ma diverso, senza pregiudizi e pensieri discriminatori.

E’ chiaro che un tiro in porta di Valentina Giacinti non avrà mai la potenza di quello di Zlatan Ibrahimovic, per citare due attaccanti milanisti, il gigante e la bambina. La differenza tra uomini e donne è esclusivamente fisica e atletica. Campo, porta, pallone, tecnica, tattica, regole ecc. sono uguali. Gli uomini dovrebbero guardare una partita femminile senza fare paragoni una volta per tutte. Quelli che amano il calcio amano il calcio a prescindere da chi lo giochi e ne gode sempre. Il calcio è di chi lo ama. La verità è che sono molte di più le donne che sanno giocare a calcio che gli uomini che sanno rifare il letto. Tra le due è più difficile la prima, no? La donna non fa distinzione tra cosa da maschio e cosa da femmina, se vuole imparare impara. Gli uomini invece difendono la differenza, è più comodo.

 
 
 
 
 
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Raccontaci del tuo libro “Volevo essere Maradona”.

E’ la biografia romanzata di Patrizia Panico, la più grande calciatrice di Italia fino al 2016, ultima sua stagione a 41 anni, chiusa da vicecapocannoniere, vent’anni di carriera sempre al top e una collezione di numeri e record impressionanti. Ma di lei, della sua storia, chi sapeva se non un ristretto mondo? In Italia ancora oggi il calcio femminile è Carolina Morace, è un limite.

Dopo Morace, grandissima per carità, ci sono stati vent’anni di Panico e quelle della sua generazione che sono anche le calciatrici che hanno creato i presupposti della rivoluzione del calcio di oggi. Insomma, ho pensato che fosse giusto mettere nero su bianco la sua storia, affinché restasse per sempre. Abbiamo iniziato a frequentarci, lei mi raccontava e io scrivevo, senza un criterio e un ordine.

Era difficile starle dietro, aveva cominciato a lavorare con la Nazionale (altro record, Panico è stata la prima donna al mondo ad allenare una Nazionale maschile seppur giovanile, l’under 15, e ora è pure vice dell’Under 21, cosa davvero clamorosa una donna essere nello staff tecnico della Nazionale appena sotto la Maggiore) e abbiamo un po’ mollato. Leggendo gli appunti mi sono resa conto di avere il materiale più bello della sua vita.

Pensavo a Open la biografia di Agassi, la parte che più mi ha affascinato era quella di lui bambino: come, da dove e quando nasce un campione? Nasce lì, quando gioco e fatica si confondono e pensi che il piacere di giocare valga la fatica, il sacrificio. Ho raccontato la storia di Patrizia dagli otto anni fino ai venti: come, da dove, quando è diventata una campionessa. Volevo essere Maradona è la storia di una ragazzina innamorata del pallone, a cui è concesso di giocare con gli amichetti per strada perché lei non è una femmina è Maradona, infatti è la più forte di tutti.

E’ la storia di una lotta inconsapevole alle discriminazioni, ai pregiudizi, al bullismo, ma anche la storia di una famiglia come tante, dove i genitori si separano e i figli soffrono e si inventano strategie, dove l’amore e l’unione con la sorella è fondamentale per la crescita di Patrizia, come per chiunque abbia fratelli, specie in una borgata di Roma come Tor Bella Monaca dove perdersi è un attimo e il calcio ti salva la vita. Ma soprattutto è il racconto di un sogno e la determinazione a raggiungerlo.

A Patrizia ho detto che dovevamo raccontarlo ai ragazzi. Dovevamo raccontare che hanno il diritto di sognare anche i sogni più impensabili o assurdi. Lei pensava che la sua fosse una storia come un’altra e invece è diventata un romanzo, con tanti bei personaggi che le gravitano attorno, alcuni veri altri inventati ma verosimili.

 
 
 
 
 
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Hai una figlia, se ti dicesse di voler diventare una calciatrice che cosa le consiglieresti?

La accompagnerei subito alla prima società e le consiglierei di divertirsi e di fare un sacco di amicizie. Lo sport di squadra in assoluto è fondamentale per la crescita completa di una persona. Calcio o basket, con cui io sono cresciuta, non fa differenza. Vivere di sport, se ti è concesso, deve essere bellissimo, se avessi avuto il fisico questo era il mio sogno.

 
 
 
 
 
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Qual è la calciatrice che secondo te rappresenta meglio il calcio femminile?

Morace e Panico, nell’immaginario comune soprattutto maschile, saranno per sempre il calcio femminile. Ma se parliamo di chi gioca oggi, i nomi sono quelli delle attaccanti, Cristiana Girelli, Barbara Bonansea, Valentina Giacinti. E’ facile sei fai gol e sei anche bella…

Poi ci sono le eccezioni dei difensori: Sara Gama, che davvero è il calcio femminile per le battaglie che porta avanti da sempre mettendoci faccia e fatica e impegno; poi direi Alia Guagni, ora all’Atletico Madrid, meno personaggio, ma davvero una potenza in campo, che bello vederla quando inizia a correre come una centometrista.

 
 
 
 
 
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Arriverà mai un giorno in cui le partite femminili riempiranno gli stadi come quelle tra uomini in Italia?

No.