Impresa storica: un reattore a fusione ha fatto registrare un saldo energetico positivo. Un primo piccolo passo verso la svolta energetica green tanto attesa; non mancano però difficoltà e preoccupazioni
È l’11 dicembre; lo sguardo della comunità scientifica mondiale è rivolto verso la California; fisici, ricercatori e appassionati di scienza sono appesi a un’indiscrezione del Washington Post: la testata giornalistica più importante d’America ha annunciato una “svolta” riguardo la fusione nucleare, grazie a un test condotto il 5 dicembre dal Lawrence Livermore National Laboratory. Ulteriori notizie si avranno il giorno dopo, in una conferenza stampa che si preannuncia storica.
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Prima di conoscere l’esito di questa ricerca, è bene fare qualche premessa. In Italia l’energia nucleare è stata, ed è ancora oggi seppur in toni minori, una questione fortemente divisiva (il referendum del 1987 ne è l’apice): schieramenti di ogni colore politico hanno polarizzato il dibattito, sacrificando i fatti scientifici per tornaconto elettorale. Come L’Avvocato dell’Atomo, aka il professor Luca Romano, afferma nel suo omonimo libro (Fazi editore, 2022): “nella classifica di chi gode di peggior stampa, l’energia nucleare si colloca tra la camorra e l’ISIS, ma senza aver fatto niente per meritarselo”. Per non alimentare ulteriormente quest’accanimento, quindi, è meglio porsi qualche domanda (per una chiarezza ulteriore nelle risposte, nuovamente rimando ai canali dell’Avvocato).
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Partiamo dalla fissione nucleare: come funziona?
Se il nucleo di un elemento “pesante” come l’uranio viene colpito (visti i rimandi bellici, non userò il termine tecnico più corretto “bombardato”) da neutroni, questo si divide in due frammenti che si respingono, generando energia. I neutroni che si “disperdono” da questo impatto possono a loro volta generare una catena di fissioni. L’energia si manifesta sottoforma di calore che, scaldando dell’acqua, produce vapore, il quale a sua volta muove una turbina. Da energia meccanica a elettrica: questo è quello che avviene in un centrale nucleare. I vantaggi di questo approvvigionamento energetico stanno nel rapporto combustibile-energia prodotta: 1 grammo di uranio così trattato produce lo stesso quantitativo di energia che si produce con 2800 kg di carbone, con bassissime emissioni di gas serra! (no, NON è a emissione zero). E allora dove sta il problema? In realtà sono prevalentemente due. Il primo riguarda l’approvvigionamento del combustibile: i giacimenti di uranio più grandi, infatti, si trovano in Canada, Australia e Kazakistan; molto scarsi se non inesistenti quelli in Europa. Se oggi ci siamo accorti dei problemi che anni di politiche energetiche poco diversificate, incentrate su pochi grandi fornitori (Russia per il gas, paesi arabi per il petrolio), hanno prodotto all’economia europea, chi ci assicura che domani non accadrà lo stesso con questi paesi?
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Il secondo, riguarda la produzione di rifiuti radioattivi, di diversa pericolosità, durante la reazione: questi devono essere conservati in depositi ad hoc per molto tempo (si parla di numeri fino all’ordine di centinaia o migliaia di anni) prima di essere completamente smaltiti, in modo che decada la carica radioattiva. È proprio questo secondo aspetto che spaventa di più l’opinione pubblica: incidenti quali Černobyl nel 1986, Fukushima nel 2011 (quest’ultimo, per precisazione, non è stato causato direttamente dal terremoto ma dal conseguente tsunami) o quello di entità minore di Three Mile Island del 1979, hanno contribuito a demonizzare la tecnologia nucleare. Attenzione: un conto è condannare la mala gestio degli impianti e l’errore umano, tutt’altra storia è non riconoscere i benefici di questa fonte di energia che, come nella maggior parte dei casi, è controllata nel migliore dei modi possibili.
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Molto diversa invece la fusione nucleare.
Due nuclei atomici, che in natura sono positivi quindi tendono a respingersi, vengono forzati a combinarsi tra loro: questo è più facile se si usano elementi “leggeri” come l’idrogeno, il quale ha una carica elettromagnetica (la forza che tende a fare allontanare gli atomi) minore da combattere. L’energia prodotta infine viene usata, come nella fissione, per muovere una turbina. Per “avvicinare” gli atomi e dare inizio alla reazione, sono necessarie altissime temperature (si parla di milioni di gradi), quindi molta energia per avviare il processo: il 5 dicembre scorso è entrato nella Storia proprio perché, per la prima volta, si è riusciti a produrre più energia di quella necessaria per avviare la fusione.
Ma quali sarebbero i vantaggi di questa tecnologia? In primis: l’idrogeno è molto più reperibile dell’uranio essendo contenuto nell’acqua; basta quindi uno sbocco sul mare per l’approvvigionamento. Nessun incidente nucleare: non viene usato l’uranio, e soprattutto se non si mantengono le temperature necessarie al funzionamento dei reattori, l’impianto si spegne. Infine, dato più rassicurante, vengono prodotte scorie con un basso livello di radioattività.
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Secondo gli scienziati europei, si tratta di una tecnologia a oggi lontana, migliorabile e costosa: difficile, infatti, prevedere un futuro in cui l’approvvigionamento energetico dipenderà solamente da questa fonte; più probabile (e auspicabile) che sia affiancata dalle rinnovabili. Eppure, durante la conferenza dell’11 dicembre scorso, oltreoceano i toni apparivano ben diversi, a tratti preoccupanti.
Si potrebbe sorvolare sui toni megalomani e autoreferenziali con cui gli Stati Uniti parlano di questo risultato, paragonato per importanza al “volo dei fratelli Wright” o alla scoperta del “Santo Graal” della scienza. Si potrebbe chiudere un occhio addirittura sulle parole di Tammy Ma, fisico alla guida il laboratorio dell’IFE (Inertial Fusion Energy): in linea con il principio America first, parla di una tecnologia sì accessibile a tutti e in grado di soddisfare le esigenze energetiche mondiali, ma soprattutto che possa “fornire la sovranità energetica e la sicurezza energetica degli Stati Uniti”.
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A inquietare invece sono le frasi di Jennifer Granholm, Segretaria del Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti d’America (l’equivalente del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica italiano), che ha competenze in ambito civile e militare. A due minuti dall’inizio della conferenza, dichiara:
Che cosa significa questo risultato? Due cose: primo, rafforza la nostra sicurezza nazionale, perché apre un nuovo orizzonte per mantenere un deterrente nucleare sicuro ed efficace, in un’epoca in cui non abbiamo test nucleari. L’accensione (si riferisce al tipo di test condotto il 5 dicembre, ndr) permette di replicare, per la prima volta, determinate condizioni che si trovano solo nelle stelle e nel Sole.
Secondo: naturalmente, questa è una pietra miliare che ci fa fare un passo significativo verso abbondante energia a zero emissioni, in grado di alimentare la nostra società.
Invertendo l’ordine degli addendi, il risultato cambia eccome! Sottolineare subito la possibile applicazione militare, a neanche dieci giorni dal test e, soprattutto, in un clima politico internazionale a dir poco incandescente, deve far riflettere.
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Stroncare però sul nascere una tecnologia del genere, non segnerebbe una svolta, un raffreddamento, della polarizzazione del dibattito. Come il professor Amaldi, fisico del Cern e figlio di Edoardo, uno dei suoi promotori, ha dichiarato in un’intervista al Corriere “oggi è l’ora dell’ottimismo”: necessario è quindi investire nella ricerca come si sta facendo all’ITER di Cadarache in Francia, un progetto europeo che ha come obiettivo la costruzione e l’utilizzo di un reattore a fusione sperimentale. Con la speranza che la comunità scientifica sappia utilizzare al meglio l’energia che, parafrasando la Commedia di Dante, “che move il sole e l’altre stelle”.
Images: Jakob Madsen su Unsplash