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Uno psicologo ci ha spiegato da dove viene questa maledetta ansia

Tempo di lettura: 4 min.

Capirla per affrontarla

Sono sempre più ansiosi i giovani d’oggi. E non solo di avere successo o di vedere il mondo, come è sempre stato ed è giusto che sia, ma anche in senso letterale.

Preoccupazione rispetto al futuro, proprio e del pianeta, ansia sociale e sul lavoro, sono diversi i tipi di malessere che caratterizzano le nuove generazioni. Lo mette in evidenza anche un report del 2023 dalla società di ricerche GWI che ha raccolto le risposte di oltre 900.000 persone in tutto il mondo.

Dallo studio emerge che 3 ragazzi della Generazione Z su 10 sono soggetti all’ansia, la più alta proporzione tra tutte le fasce di età. Il 29% di loro sente di soffrire d’ansia e vorrebbe aiuto. Lo dichiara anche il 24% dei Millennials.

 
 
 
 
 
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Dati che in Italia trovano conferma in un’indagine condotta dal Laboratorio Adolescenza su 5.000 adolescenti. Il 40% di loro dice di sentirsi spesso ansioso fino all’angoscia, con picchi tra le ragazze.

Ma come si sviluppa e che caratteristiche ha questo stato emotivo che attanaglia una generazione (o forse due)?

Lo abbiamo chiesto a chi se ne occupa quotidianamente come Emanuele Caldarelli, psicologo clinico della scuola Gestalt che lavora a Milano.

Emanuele ci spieghi cos’è e come nasce l’ansia?

L’ansia è un fenomeno complesso e con diverse concause, ma è connaturato alla vita, nel senso che vivere è ansioso, come dicevano gli esistenzialisti, perché c’è un sacco di incertezza nel mondo e di conseguenza è normale provare questa emozione. Addirittura può essere fisiologica e anche positiva. Infatti si parla dell’ansia buona e dell’ansia negativa, un po’ come il colesterolo (sorride, Ndr.)

Quando diventa un problema?

Quando ci impedisce di fare quello che vogliamo fare. Quando non riusciamo a parlare con le persone con cui vorremmo parlare, a uscire di casa e a relazionarci liberamente con l’altro senza pensare che ci sta giudicando. Oppure se ci rende impossibile provare a fare un esame, un’interrogazione o andare a scuola. In questi casi l’ansia ci proietta dentro un’esperienza di sofferenza, di dolore fisico e mentale, che ci preclude di realizzare le nostre intenzioni.

Qual è il percorso che fa nella nostra testa?

L’ansia è soltanto un sintomo ed è la manifestazione di un impedimento. Dove c’è ansia in realtà c’è un desiderio. Una definizione che mi piace molto è: “L’ansia non è altro che eccitazione priva di sostegno dell’ossigeno”. Dove c’è ansia c’è una fortissima vitalità, c’è voglia di incontrare l’altro, essere visti, piacere ed essere amati. Soltanto che per vari motivi non ci sentiamo sostenuti in questo movimento, in questo desiderio, che quindi si cristallizza.

Ci faresti qualche esempio?

Ho paura che se mi permetto di incontrare l’altro e quindi di rendermi visibile, l’altro non ci sarà o mi abbandonerà. Oppure, se voglio mettermi alla prova con un compito scolastico non avrò le risorse per farlo. E così inizia un circolo vizioso in cui io desidero una cosa ma sono convinto di non avere il supporto necessario e mi impedisco di provarci. L’ansia è un meccanismo di controllo: cerco di controllare il risultato, cerco di controllare il fatto che dovrò per forza piacere all’altro, ma questo è perverso perché impossibile.

 
 
 
 
 
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Perché i giovani sono più a rischio?

Sicuramente le nuove generazioni sono più sensibili a questo fenomeno in generale, infatti si parla adesso anche di ecoansia e di un’ansia quasi esistenziale legata al futuro del mondo. Inoltre, aumentano sempre di più le sindromi ansiose che si manifestano anche con autolesionismo e disturbi dell’alimentazione. Probabilmente è perché ci troviamo in un contesto storico dove tutto questo è amplificato e allo stesso tempo quel famoso sostegno dall’esterno manca. E poi c’è anche una grande paura del fallimento. Sbagliare genera un senso di vergogna profondissimo, che non si sa come gestire e quindi si cerca di evitare.

Cosa si può fare per l’ansia?

Io credo che bisognerebbe smettere di cercare le tecniche per gestire l’ansia, perché essendo la patologia del controllo, se tentiamo di controllarla in realtà la stiamo alimentando. Al contrario, dovremmo cominciare a vederla come una parte di noi che prova a farsi sentire. E allora quello che dobbiamo fare invece che zittirla ancora di più è provare a fermarci capire cosa vuole dirci.

Cercare di andare alla radice dei problemi, quindi.

Assolutamente. Bisogna imparare ad ascoltarsi e assumersi le proprie responsabilità, ma senza farsi carico dell’impossibile. La creatività poi è importantissima perché significa imparare a stare un po’ in mezzo al caos, abbandonarsi all’improvvisazione e scoprire la bellezza di dare vita a delle cose. Infatti danzaterapia, arteterapia e teatroterapia sostengono molto questo tipo di processi. Lo stesso lo sport. Poi ci sono anche dei metodi di respirazione che possono aiutare a sentire una maggiore connessione con noi stessi.

Oltre a farsi aiutare.

Incontrare adulti di riferimento che possono essere psicologi, psicoterapeuti o altri professionisti è fondamentale. Dall’altro lato serve anche cambiare un po’ la mentalità di come ci relazioniamo ai problemi. Non è sempre necessario etichettare tutte le patologie. Intendiamoci, dare un nome è importante, ma lo è di più capire qual è la mia esperienza e di che cosa mi parla. Altrimenti è come mettere un cerotto quando in realtà bisogna prima aprire la ferita e capire come ci si è tagliati.

 
 
 
 
 
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Che altro consiglio daresti ai ragazzi?

Di non sentirsi soli. Molti giovani con cui lavoro e che soffrono d’ansia si sentono soli, ma questo non è vero: non sono soli nel provarla e quindi anche cercare di affrontarla in solitudine non ha senso. Fare comunità farà veramente la differenza nel risolvere questa epidemia. Dobbiamo un po’ riscoprire la fratellanza, la relazione con gli altri e condividere questa parte di fragilità. Di nuovo, quella cosa che temiamo è il tesoro che potrebbe permetterci di risolvere tante, tante cose.

 

 

Illustrazione di Gloria Dozio – Acrimònia Studios

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