Disponibile su Disney+ dal 5 aprile, la serie (sei episodi) racconta la storia delle donne che hanno deciso di ribellarsi all’oppressione delle loro famiglie ‘ndranghetiste
Maria Concetta Cacciola, Denise Cosco, Lea Garofalo, Giuseppina Pesce: nomi di un vicino passato che echeggiano nella vastità della cronaca italiana; esistenze che rischiano tragicamente di precipitare nel dimenticatoio. A salvarle ci hanno pensato Elisa Amoruso e Julian Jarrold in The Good Mothers, che hanno saputo raccontare la criminalità organizzata senza spettacolarizzazione, concentrandosi sul dramma delle donne figlie e vittime di ‘ndrangheta.
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La serie tv, prodotta da House Production e Wildside, tratta dall’omonimo romanzo del giornalista inglese Alex Perry, ripercorre le vicende giudiziarie dei primi anni Dieci del Duemila. Centrale è la storia di Lea Garofalo e di sua figlia Denise, interpretate rispettivamente da Micaela Ramazzotti e Gaia Girace: da anni sono inserite in un programma di protezione testimoni, dopo che Lea, nel 2002, ha deciso di collaborare con la giustizia, raccontando i crimini della famiglia a cui apparteneva Carlo Cosco (Francesco Colella), suo marito. Nel 2009 però, riallaccia i rapporti con Carlo, forse per permettere a Denise di mantenere un legame col padre: ma i Cosco non dimenticano e, nella notte del 24 novembre, viene uccisa. Per Denise è l’inizio di un incubo: costretta a tornare in Calabria, diverrà prigioniera del padre e di una società, quella mafiosa, dalla quale Lea aveva cercato duramente di tenerla lontana.
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Anche Maria Concetta Cacciola (Simona Distefano) vive una vita in gabbia, schiacciata tra i ruoli di madre, moglie fedele e figlia ubbidiente: da quando il marito è finito in carcere, è tornata a vivere con i suoi genitori, che esercitano su di lei un controllo asfissiante e violento. È forse il personaggio più silenzioso di tutti, da cui però traspare la sofferenza maggiore: sogna la libertà di uscire di casa, la gentilezza di una storia d’amore, il coraggio di mettere sé stessa davanti a tutto. Assaporerà tutto questo nel breve periodo in cui entrerà nel programma di protezione, prima che gli spettri del passato la costringeranno, subdolamente, a una tragica fine.
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Una situazione simile la vive anche Giuseppina Pesce (Valentina Bellè), appartenente all’omonima ‘ndrina di Rosarno e amica di Concetta Cacciola. Un carattere più esuberante e apparentemente gelido, che le dà il coraggio di compiere piccole ribellioni: ha un ruolo attivo negli affari della cosca (per cui andrà in galera); sfida il potere degli uomini durante le riunioni del clan; ha un amante mentre il marito è in carcere (fatto inimmaginabile e potenziale fonte di disonore). Solo in un’altra donna troverà una rivale (o un’amica?) alla sua altezza: il sostituto procuratore Anna Colace (Barbara Chichiarelli), intenzionata a sconfiggere le cosche facendo leva su madri, mogli e figlie dei boss degli affiliati, le offrirà una via d’uscita. Restìa a collaborare per paura di diventare una Buscetta, Giusy cederà per un solo motivo: proteggere i suoi figli e assicurare loro un futuro diverso.
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The Good Mothers condivide poco con la tradizione delle serie tv crime italiane; forse l’unico punto di contatto è la mimesi linguistica, stile Gomorra, che rende il tutto più autentico. Per il resto, offre un punto di vista alternativo e unico. In primis: è una serie che parla di ‘ndrangheta, l’organizzazione ad oggi più potente, rafforzatasi in silenzio, all’ombra dello stragismo di Riina. Secondo: sono storie di collaborazione con la giustizia, non proprio l’archetipo narrativo più amato dai cultori del genere; eppure è quello che più di tutti mette a nudo la sofferenza di chi subisce lo scherzo del destino di nascere in una famiglia malavitosa. Se poi ci nasci donna, beh i problemi raddoppiano, e qui arriviamo al terzo punto: è raccontata una metaribellione, al sistema mafioso e agli uomini che soggiogano le protagoniste. Giusy, Lea e Concetta non sono tanto vittime dei mariti, per la maggior parte in carcere, bensì dei padri-padroni: la famiglia non è più un rifugio ma il luogo da cui fuggire; il futuro che non augurano alle nipoti che assistono terrorizzate alle violenze.
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Queste novità narrative, prive di clichè (nessuna donna velata di nero o uomini con lupara in spalla in salsa Francis Ford Coppola) e arricchite da un’ottima regia (l’uso dei campi lunghi è fondamentale per sottolineare il senso di isolamento, di un territorio quanto delle protagoniste), non sono passate inosservate. The Good Mothers infatti è stata candidata a quattro Nastri d’Argento (miglior serie; miglior attrice; miglior attore; miglior attrice non protagonista) e si è aggiudicata il Berlinale Series Award 2023, colpendo la giuria per le storie di “donne coraggiose che hanno resistito a decenni di oppressione e misoginia e hanno contribuito a far cadere la mafia calabrese”.
Illustrazione di Gloria Dozio – Acrimònia Studios