Il ritorno agli studi dopo quarant’anni di lavoro. Tra borracce, manine digitali, corsi a distanza e schermi luminosi. Alla ricerca del tempo perduto
Prima di tornare all’università sono andato in pensione. A 62 anni. Non che lo volessi: sono stato invitato a farlo. “Se resti”, il ritornello dell’azienda “saranno i più giovani a essere penalizzati”. Un modo come un altro per dirti che sei un peso e se ti togli di mezzo compi un atto che fa piacere. A tutti. Con buona pace di chi si dispera per i conti dello Stato. Un giornalista in meno, un pensionato in più.
La prima cosa che ho fatto dopo essere diventato un dipendente dell’istituto di previdenza e dunque degli italiani, è stata tornare a piedi al paese in cui ero cresciuto. Ventuno giorni di cammino, da Roma a Zocca. Un’avventura fantastica. A parte le vesciche ai piedi. Camminare è una cosa eccezionale. Vedi il mondo dal lato migliore. Senti il freddo, il caldo, la fatica. Dormi come un principe. Il problema è che a un certo punto devi fermarti. E allora sono guai.
La pensione è meravigliosa per chi l’aspetta. Sai che diventerai padrone del tuo tempo. Chi lavora molte ore al giorno e sei giorni la settimana, come fanno i giornalisti nei quotidiani, sa che il tempo è un bene preziosissimo. Una grande ricchezza. Come tutte le grandi ricchezze va amministrata bene. E non è facile. Il tempo può anche diventare un problema se non hai ben chiaro cosa vuoi fare. E dunque, dopo aver dondolato per qualche mese alla ricerca del tempo perduto, ho deciso che qualcosa dovevo fare. Qualcosa di serio. Così mi sono iscritto all’università.
A Bologna avevo lasciato il Dams nel 1984 quando, entrato al giornale come “abusivo” – così si chiamavano allora gli aspiranti redattori -, mi ero reso conto che era arrivato il momento di scegliere. Mi mancavano 3 esami e la tesi.
Adesso nelle università il percorso non viene definito in base al numero di esami. Ci sono i crediti. Però si ricordano delle vecchie cariatidi. Non le lasciano per strada. Così, chiesta la ricostruzione della carriera, Roma Tre mi ha riconosciuto 90 crediti. Per laurearsi ne servono 180. E la tesi, naturalmente.
Superare il test d’ingresso mi ha dato molta soddisfazione. 53 punti su 60. “Sono un grande”, mi sono detto. Sono troppo grande, nel senso di troppo vecchio, mi sono detto quando ho messo piede a lezione per la prima volta. Ho cercato di essere invisibile, ma è chiaro che ai ragazzi non sono passato inosservato. I ventenni di oggi sono molto più discreti di come eravamo noi alla fine degli anni ’70. Noi eravamo specialisti nel fare casino, loro sono misurati. Ti guardano senza manifestare il minimo disprezzo. E non si mettono neanche a ridere.
Bevono dalle borracce e non dalle bottiglie. Prendono appunti sul pc e non sul quaderno a righe. Con lo smartphone fanno cose che ti lasciano a bocca aperta. Non si addormentano sui banchi. Sono attenti. Disciplinati. Silenziosi. Io li guardo con ammirazione.
È cambiato tutto. Le lavagne sono sparite. Adesso ci sono gli schermi illuminati dai proiettori. Le lezioni si possono seguire anche a distanza e a distanza intervenire. Basta spingere sull’icona della manina sollevata e il docente ti dà la parola. I lavori seminariali si concludono con la presentazione di un “power point” e se non lo sai fare sono problemi. I prof comunicano sulle chat, caricano i materiali didattici sul canale del corso, il piano di studi si stila in digitale. Sembra tutto facilissimo e forse lo è davvero. Io comunque, superata la fase di disorientamento, ho pensato che la cosa migliore fosse quella di rivolgersi a un professore in carne e ossa. E chiedergli una mano. Si può ancora fare. Devo presentare il piano di studi. Ho preso un appuntamento con il tutor. “In presenza o a distanza?” mi ha chiesto. “In presenza”. Lo vedo domani. Poi vi racconto.