La pandemia ha fatto spopolare il fenomeno di Twitch, popolare piattaforma di live streaming, dando così visibilità al lavoro dello streamer
Copywriter, e-commerce manager, SEO specialist, social media manager: il digitale ha generato nuove figure professionali in diversi settori, dallo shopping all’informazione, passando per la comunicazione social. Con buona pace della televisione, percepita ormai come un organismo affaticato che propone format ventennali, anche l’intrattenimento sta migrando in rete. La pandemia ha fatto spopolare il fenomeno di Twitch, popolare piattaforma di live streaming, dando così visibilità al lavoro dello streamer.
Nel 2007, Justin Kan, Emmett Shear, Michael Seibel e Kyle Vogt fondano Justin.tv, una piattaforma su cui gli utenti potevano caricare, sui propri canali, live e video. La startup di San Francisco ha subito un notevole successo, e con esso arrivarono anche molti episodi spiacevoli: violazione di copywright e pubblicazione di contenuti violenti si moltiplicano; addirittura ci fu il caso di un suicidio in diretta. Così nel 2011 si decide di scorporare la sezione “sana” del progetto, legata allo streaming di videogiochi: nasce così Twitch. Il successo è planetario, tanto che nell’agosto del 2014, Amazon acquista il sito per 970 milioni di dollari. I dati ufficiali della piattaforma non sono facilmente reperibili online, ma secondo il sito Twitchtracker, nel 2021 sono state 22,8 miliardi le ore di contenuti visti da 2,78 milioni di spettatori. Gli spettatori sono per il 41% tra i 16 e i 24 anni, per il 65% maschi, che prediligono live di videogiochi (su tutti, League of Legends, gioco multiplayer online del genere battle royale).
Ma come funziona una live? E soprattutto: come ci si guadagna?
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Webcam, microfono e buona connessione internet: questi sono i ferri del mestiere dello streamer. I contenuti della live invece, variano notevolmente: ci sono le IRL (acronimo di in real life), in cui gli spettatori entrano nella vita quotidiana di chi trasmette, spesso in giro per le città; live di lettura ad alta voce; veri e propri show cooking o sedute di giochi di ruolo. Le categorie più popolari sono però quelle di gaming (vengono trasmessi anche i tornei internazionali) e di just chatting, dove lo streamer ha la possibilità di chiacchierare con gli spettatori. È proprio la possibilità di dialogo, mediante una chat, il punto forte di Twitch: si crea un rapporto tra intrattenitore e pubblico, che fidelizza gli utenti al punto di sostenere anche economicamente gli streamer. Come? Mediante un sistema di donazioni e abbonamenti mensili: ci sono formule da cinque, dieci o venticinque euro; la sottoscrizione dell’abbonamento ha dei vantaggi: niente pubblicità e possibilità d’accesso a chat esclusive con i creator. Il guadagno è diviso tra streamer e piattaforma, la quale può sottoscrivere un partenariato con i proprietari dei canali e sostenerli a sua volta. Si aggiungono poi le entrate per le sponsorizzazioni di prodotti in live, oltre che la vendita di intermezzi pubblicitari. Twitch non consente ai content creator di diffondere notizie sui guadagni: un recente attacco hacker ha però svelato compensi da capogiro, nell’ordine delle centinaia di migliaia fino al milione di dollari.
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Davanti a queste cifre, gridare allo scandalo è la reazione più comune: “vergognoso guadagnare così tanto giocando ai videogiochi” o “non è un vero lavoro” sono le frasi più gettonate. Non potrebbe esserci analisi più superficiale nel ridurre tutti i canali all’immagine del nerd dagli occhi iniettati di sangue, chiuso in camera sua per ore e ore davanti al pc. Negli ultimi due anni si sono sviluppati veri e propri talk show, in cui sono affrontati gli argomenti più vari. Tra quelli di maggior successo sicuramente sono da citare Daily Cogito di Rick Dufer (recentemente trasferitosi da Twitch a Youtube. Sì, anche questa piattaforma permette di streammare), in cui tratta di filosofia, cultura e attualità; Adrian Fartade, divulgatore scientifico ed appassionato di esplorazione spaziale: celebri le sue dirette in cui commenta i lanci spaziali di NASA ed ESA. Anche il mondo del pallone è sbarcato sulla piattaforma viola: BoboTV, canale calcistico condotto da Bobo Vieri, Antonio Cassano, Daniele Adani e Nicola Ventola, ospita in esclusiva allenatori e giocatori (con buona pace delle emittenti televisive), con un pubblico di migliaia di appassionati. Infine Ivan Grieco, l’esempio forse più virtuoso dell’offerta online: nato come commentatore di e-sports, nel tempo è riuscito a creare un format di attualità incentrato sulla politica: le sue maratone “alla Mentana” durante le elezioni amministrative e parlamentari hanno riscosso un notevole successo, avvicinando molti giovanissimi alla politica. Par condicio pienamente rispettata: tra gli intervistati infatti figurano Carlo Calenda, Virginia Raggi, Giuseppe Conte, Marco Rizzo, Simone Pillon, Marco Cappato, Matteo Renzi.
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Ivan Grieco si batte da anni per far conoscere alla politica il mondo dei creatori di contenuti digitali, lavoratori a tutti gli effetti che generano profitto, pagano le tasse ma non sono normati e tutelati adeguatamente. Il rapporto con la piattaforma è ambiguo. Non c’è un contratto di lavoro subordinato, sono lavoratori autonomi inquadrati con codici ATECO obsoleti. Eppure dipendono da Twitch, dalla partnership sottoscritta e dall’algoritmo, che penalizza chi non trasmette con continuità. Risultato: se uno streamer non fa live costantemente, a lungo termine rischia di perdere visibilità. Quindi pochi giorni di malattia, poche ferie e ritmi devastanti. Questa la situazione riportata da Grieco il 6 maggio 2021 alla Commissione lavoro della Camera dei deputati (disponibile su Youtube).
Internet è un organismo che muta velocemente, una miniera di opportunità da sfruttare in ambiti sempre diversi. Escludere coloro che vivono di questo dalla categoria di lavoratori è un sintomo di arretratezza culturale. Perché uno scrittore, un regista, un conduttore televisivo o radiofonico hanno più dignità di chi, in sostanza, svolge mansioni analoghe sul web? Mentre possiamo aspettare, e auspicare, un cambiamento culturale rispetto alla creator economy, la politica ha il dovere di tutelare al più presto una categoria ad oggi rimasta nell’ombra.