Nel nuovo panorama politico italiano la presenza di ministeri con a capo una presenza femminile rimane molto esigua. Certamente non un caso, se andiamo ad esaminare la struttura della nostra società.
Si dice che la politica sia lo specchio delle persone, della società, dei costumi di un paese.
Di certo la situazione dell’Italia nel 2021 ha qualcosa di surreale, non certo una novità per il mondo della nostra politica, ma forse dopo tutto quello che ci è capitato sarebbe gradita un po’ di tranquillità. E invece questo anno si è aperto con una crisi che ha portato alla creazione di un nuovo governo, capeggiata dalla figura di Mario Draghi, economista, ex-presidente della Banca centrale europea e nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri.
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Alla vigilia dell’annuncio della lista dei nuovi ministri si era parlato della possibilità di avere una maggiore presenza femminile, pareva una certezza. Di fatto ora sappiamo che così non è stato: su ventiquattro ministri solo otto sono donne, solo tre con portafoglio (ovvero con una capacità di spesa, bilancio, uffici, funzionari, insomma con più potere): Marta Cartabia alla Giustizia, Luciana Lamorgese all’Interno, Cristina Messa all’Università e alla Ricerca , tutte tre tecniche. Poi abbiamo Elena Bonetti di Italia Viva alle Pari Opportunità e Famiglia, Fabiana Dadone del Movimento 5 Stelle alle Politiche Giovanili, Maria Stella Gelmini di Forza Italia agli Affari Generali e le Autonomie, Mara Carfagna sempre di Forza Italia al Sud e Occupazione Territoriale, Erika Stefani della Lega alla Disabilità.
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Si potrebbero fare qui due osservazioni: il fatto che i media mainstream abbiano salutato questa scelta come una vittoria per le donne, quando di fatto costituiscono solo un terzo sul totale (e questo fa capire quanto l’asticella sia in basso) e il fatto che solo tre di loro occupino ministeri considerati e dotati di un “certo peso” mentre la maggior parte sono inserite in incarichi più sociali, considerati tradizionalmente “femminili” (non è un modo per sminuire nessuno ovviamente, pura e semplice constatazione). Se proprio dobbiamo entrare poi nel merito della questione politica, di fatto nessuna di queste donne appartiene a uno schieramento tradizionalmente considerato di sinistra, dove si è sempre concentrata la maggiore onda di progressismo, in particolare relativo alle questioni di femminismo e diritti delle donne.
Ovviamente facciamo i nostri migliori auguri alle ministre e speriamo che possano fare il migliore lavoro possibile in questa situazione di crisi. Eppure rimane un certo senso di amaro in bocca.
Come abbiamo detto in apertura la politica è spesso uno specchio impietoso del proprio paese. E che paese emerge? Un paese in cui il sessismo è ancora radicato in profondità, in cui essere donna vuol dire dover ancora sottostare a una serie di stereotipi dannosi che limitano la nostra espressione e le nostre capacità, subire violenze causate dalla disuguaglianza di genere, essere considerata meno capace e valida in ambito lavorativo.
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Le crisi mettono in luce e portano allo scoperto le piaghe già esistenti e quella attuale non è da meno: se come sottolinea Claudia Manzi, docente di Psicologia Sociale dell’Università Cattolica e coordinatrice del progetto Howcare, le donne hanno reagito meglio alla prima fase della pandemia, probabilmente per una maggior propensione alla gestione più positiva degli eventi traumatici, in seguito ne hanno subito il doloroso contraccolpo, dovendosi addossare il peso quasi totale delle faccende familiari e domestiche e ritrovandosi a subire in primis la crisi del mercato del lavoro, che spesso le considera meno essenziali, dunque meno tutelate e più facilmente licenziabili. Ricordiamo che secondo i dati Istat di dicembre 2020, su 101.000 nuovi disoccupati 99.000 erano donne. Non si tratta assolutamente di un caso.
Sarebbe necessario un colpo di spugna, un cambiamento che passi dalle parole ai fatti, un gender mainstreaming, come spiega Antonella Vetri, presidentessa di D.i.Re – Donne in rete contro la violenza: “Prendiamo atto che ancora una volta non è stato fatto un passo per affrontare con l’energia dovuta il drammatico gender gap dell’Italia, che si è molto aggravato a causa della crisi economica generata dalla pandemia e che sappiamo essere alla radice della violenza maschile contro le donne che non accenna a diminuire. Salta agli occhi in maniera drammatica la differenza con altri paesi europei che hanno nominato donne alla guida dei loro governi: Sanna Marin in Finlandia, Brigitte Bierlein in Austria, Mette Frederiksen in Danimarca, Katrín Jakobsdóttir in Islanda, Erna Solberg in Norvegia per non dire di Angela Merkel in Germania”.
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Durante il suo discorso al Senato con cui ha chiesto la fiducia, Draghi ha menzionato la questione: “la mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro”. Un buon programma senza dubbio, che speriamo davvero si avveri.
Dunque le donne ci sono, sono capaci, sono disposte a far sentire la loro voce, ma hanno bisogno di essere ascoltate, di avere la possibilità di accedere a risorse e mezzi. Di considerazione. Non qualcosa di facile, è necessario un immenso cambiamento sociale, uno shifting di mentalità che dovrebbe essere scontato ma non lo è assolutamente. Ma finché non giungeremo, non diciamo a un traguardo, ma a un punto di miglioramento, continueremo a parlarne e a farci sentire.