Perché parlare di diritto al riposo è necessario e perché leggere Manifesto pisolini. Guida femminista sul diritto al riposo è un buon inizio
Essere stanchi, avere bisogno di tempo per riposarsi è antieconomico: ammesso che si abbia del tempo libero, questo deve essere consumato, valutabile, impiegato per hobby socialmente accettati. Se poi si ricavano anche dei soldi dal tempo libero, tanto meglio.
Una narrazione che sta iniziando a essere messa in discussione: ne abbiamo parlato con Virginia Cafaro, autrice di Manifesto pisolini. Guida femminista sul diritto al riposo (Le plurali, 2024).
Inizierei proprio dall’incipit del tuo libro: come stai?
Proprio come nella prefazione rispondo “stanca”, ma tutto bene. Sono felice, un’idea di felicità di cui parlava Michela Murgia: una condizione a cui aspirare, in cui vivere quotidianamente.
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Quando hai iniziato a riflettere sul diritto al riposo?
Fin da piccola sono stata circondata da persone stanche: la mia è una famiglia di operai, che mi ha permesso di studiare e di “liberarmi” delle loro fatiche. Il lavoro, nel mondo della comunicazione milanese, mi ha portato al burnout: non avevo più tempo per me e per ricaricarmi. Tutto è cominciato lì, quando ho iniziato a reclamare il mio diritto al riposo.
Una riflessione che ha portato alla nascita di Manifesto pisolini, edito da Le plurali: come è nato?
Stavo già scrivendo dei libri sulla tematica del tempo e come questo è vissuto dalle donne. Quando sono uscita dal burnout del 2020, ho ripreso il tutto, concentrandomi maggiormente sugli aspetti del tempo di cura e sull’impatto del digitale nel diritto al riposo. Così è nato un libro in formato snack, agile: Manifesto pisolini.
Il sottotitolo del tuo libro è guida femminista sul diritto al riposo: come mai questa connotazione specifica?
Il tema è intrinsecamente femminista, basti pensare al tempo di cura verso bambini e anziani: un lavoro per cui non è previsto un riconoscimento economico, che ricade abitualmente sulle donne. Molte studiose che cito nel libro hanno analizzato questi aspetti; è stato un modo anche per dar loro lustro. Ragionare in ottica femminista è un modo per porsi delle domande, per avere momenti di autocoscienza.
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Il ruolo dei social non è neutro nell’ottica del riposo, anzi!
Sono una bimba di internet; la possibilità di fare rete con altre persone è di per sé una cosa buona, non demonizzo lo strumento dei social. Sono però delle aziende, e come tali cercano di capitalizzare sul tempo, sul nostro tempo: promuovono se stessi come centri di connessione tra persone con dell’adv in mezzo, in realtà la scala di valori è proprio invertita. Provano a venderci la felicità e il riposo in formato tascabile.
Una sensibilità maturata col tempo o c’era già quando lavoravi in ambito comunicazione?
L’avevo già, ma nel social media marketing è tutto troppo veloce. Arriva il trend o il filtro nuovo e ragioni sul target a cui poterlo proporre; i rischi dell’infinite scrolling erano, e sono, sottovalutati. Una causa è anche la mole di lavoro a cui si è sottoposti, che non permette di fermarsi a ragionare sulle conseguenze.
Oggi il tuo rapporto con i social è cambiato?
Assolutamente, e sta cambiando ancora: TikTok lo apro solamente su browser; Instagram lo utilizzo in maniera più selettiva, andando a cercare i contenuti che voglio vedere. Uso ancora molto Reddit, dicendomi che è meglio degli altri. In generale sto provando ad andare verso un uso “sano” di questi strumenti, meno passivo.
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La hustle culture e il modello self made man sono meccaniche che demonizzano l’ozio e alimentano quello che definisci “capitalismo cronofago”: sono ormai interiorizzate? Come si combatte nel quotidiano?
Ho la percezione che si parli meno di self made man, forse perché nella mia bolla se ne parla di meno. Innegabile però che una parte di narrazione glorifichi la persona fatta da sé, che spesso va a braccetto con il lavorismo. Pochi però si soffermano sul fatto che viviamo in un sistema in cui se hai dei soldi in più sei un passo avanti rispetto agli altri: spesso le persone glorificate vengono da questa situazione.
Non c’è una soluzione quotidiana se non iniziare a prendere consapevolezza del fenomeno.
Il quiet quitting (lavorare il minimo indispensabile nel rispetto delle proprie mansioni, ndr) dovrebbe essere la normalità eppure sembra un gesto rivoluzionario: servono delle norme a riguardo?
Se sei l’ultimo arrivato, è più difficile dire di no. Ovviamente servono delle leggi, ma il lavoro fondamentale è la creazione di una rete tra pari, fatta di piccoli gesti e comprensione dell’altro, che aiuti a entrare in un’ottica comunitaria.
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Alle volte l’attenzione al dipendente, se c’è, è di facciata; sfocia nel wellbeing washing: credi ci sia la stessa consapevolezza del fenomeno, al pari di quello green, rainbow e pink?
La casistica è ampia: ci sono aziende che inconsapevolmente sfociano nel wellbeing washing; altre, medio piccole, che vorrebbero fare di più ma la pressione fiscale lo impedisce. Dal lato del lavoratore, lo strumento per una maggior consapevolezza è di nuovo il porsi delle domande: perché l’azienda mi da un determinato benefit? Ha i soldi per pagarmi di più ma gli conviene pagarmi così?
Un’ultima domanda: cos’è e che valore ha per te il tempo oggi?
Qualcosa di molto astratto, che sto cercando di comprendere: qualcosa che non ha e non può avere un valore intrinsecamente economico, che ho la fortuna di avere. So perfettamente di essere una privilegiata.
E il riposo?
Qualcosa che ho sempre amato, oggi ancora di più. Qualcosa che i miei genitori hanno sempre protetto.
Illustrazione di Gloria Dozio – Acrimònia Studios