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“Non siamo fiori”, l’artista Drunkenrabbit si racconta in vista della personale all’ADI

Tempo di lettura: 3 min.

Fili e storie in mostra a Milano

I fili come vasi sanguigni che conducono verso il cuore pulsante di ognuno di noi, fatto di tempo, ricordi e di tutte le nostre fragilità di esseri umani. Questa l’idea alla base di “Non siamo fiori” il progetto artistico di Drunkenrabbit, pseudonimo di Linda Ferrari, che il 28 e 29 settembre sarà in mostra all’ADI Design Museum di Piazza Compasso d’Oro, a Milano.

Nata a Brescia nel 1986, Ferrari è cresciuta nella casa della nonna materna, circondata dall’arte, dalla letteratura e da soffitte piene di vecchi giocattoli. Si addormentava ascoltando l’Iliade, l’Odissea, Wilde, Andersen e i racconti avventurosi sulla sua famiglia. Fiabe, storie familiari e ricordi sono stati di ispirazione per tutta la produzione artistica di Drunkenrabbit, compreso il suo ultimo progetto.

Quella che sarà esposta nel weekend all’ADI è allo stesso tempo un’opera multimediale e un ricamo su carta. Drunkenrabbit ha coinvolto 53 donne provenienti da tutto il mondo per scoprire ciò che le ha rese chi sono. L’artista ha quindi intrecciato, attraverso il montaggio, tutti i video ricevuti in un unico lungometraggio della durata di 60 minuti.

Successivamente, ha chiesto alle partecipanti di identificarsi con un filo e un tipo di tessuto. Questi fili sono stati poi utilizzati per il ricamo a mano, così che le trame di tutte le donne si incontrassero e si fondessero.

Il titolo “Non siamo fiori” si contrappone invece alla retorica che racconta le donne solo come oggetti da maneggiare con cura.

Prima di tutto una curiosità: da dove viene il nome d’arte Drunkenrabbit?

Dalla prima parte della mia esperienza artistica in cui avevo sempre l’ossessione di questo coniglio bianco, da appassionata di Alice nel paese delle meraviglie, ma un po’ underground. L’ho scelto anche per separare la mia attività di artista da quella di curatrice, che continuo a svolgere come Linda Ferrari.

Da dove nasce invece l’idea per questo progetto?

L’ispirazione risale a una storia che mi raccontava la mia bisnonna. Era una sorta di Cenerentola italiana in cui una ragazza poverissima doveva andare al fatidico ballo e tutti gli abitanti del villaggio le donavano un filo colorato per cucire il vestito. Io mi immaginavo questo abito pazzesco, tutto colorato, bellissimo.

Come lei anche hai cucito (letteralmente) le storie che ti hanno donato donne di tutto il mondo.

Mi è sempre piaciuto coinvolgere gli altri e fare cose insieme, ma durante il lockdown ho avvertito questa urgenza di connettermi con le persone e finalmente ne avevo anche il tempo. Quindi ho rispolverato delle amicizie che non sentivo da anni, oppure scritto a donne che seguivo su Instagram e che ammiravo. L’indicazione era di raccontarmi il tessuto della loro esistenza e ognuna di loro mi ha mandato un video, spiegando chi era e cosa l’aveva fatta diventare chi era, in 60 secondi.

Non è per nulla facile.

No, perché siamo tutti un complicato intrico di trame, di layer. Per questo è stato un bel momento di riflessione per tutte. Ho detto poi a ognuna di loro di rappresentarsi con un filo, per cucirlo insieme agli altri, e anche questo non è stato facile.

Questi fili ti hanno condotto da altre parti.

Sì, una ragazza mi ha detto “io sono un filo d’oro, non un filo dorato” e ho dovuto trovare qualcuno che lavorasse l’oro come un filo. Tramite un’amica ho conosciuto Giovanni Corvaglia, un orafo che dall’oro puro ricava dei fili e che me ne ha regalato uno per l’opera.

Tornando alle storie, ce n’è qualcuna che ti ha colpito particolarmente?

Sì, c’è stata una ragazza libanese ha voluto partecipare al progetto mandandomi un video della sua vita dopo l’esplosione al porto di Beirut. Quindi nonostante la sua casa fosse distrutta e la gente in strada, lei ha ripreso la sua torta di compleanno o un suo allenamento in palestra.

Un’altra, di origine messicana, ma che vive a San Francisco, sempre super cool sul suo profilo Instagram, mi ha inviato un bel video in bianco e nero in cui sbatte in continuazione gli occhi. Nella descrizione ha spiegato che era a causa della sindrome di Tourette. Una cosa che dalle foto che postava non si poteva capire. È stato molto potente.

Cosa rappresenta per te l’intreccio dei fili?

Sicuramente il potere della connessione. Insomma, guarda cos’ho creato io grazie all’aiuto di 53 donne, tu pensa che cosa potremmo fare anche in altri ambiti se veramente dovessimo decidere tutti di remare dalla stessa parte. Quindi quello del filo è un concetto declinabile in qualsiasi cosa, tenendo a mente che l’arte può avere anche una valenza civica.

Illustrazione di Gloria Dozio – Acrimònia Studios
Immagini cortesia di Linda Ferrari
2560 1440 Tommaso Meo
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