A Sanremo va in scena uno scontro generazionale: cantanti navigati che raccontano (ancora) d’amore da un lato, dall’altro millennial e Gen Z sensibili ai problemi reali.
Il festival di Sanremo è l’espressione della musica leggera. Anzi leggerissima, per rimanere in tema: ritornelli che entrano in testa e vi soggiornano a lungo contro il volere dell’ascoltatore, papabili tormentoni estivi, motivetti sfornati per i social. Fattori che spingono i sommelier del cantautorato genovese e i cultori dell’indie (esiste ancora? Non è diventato il genere più commerciale?) a disertare la settimana santa di Sanremo. “Io non lo guardo”: ma lo commento ogni giorno, aggiungerei.
Ma davvero si riduce solo a questo?
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È vero, nelle 73 edizioni passate le canzoni di denuncia sociale, più politicizzate, sono state sporadicamente selezionate: in parte tenute alla larga dall’Ariston dai direttori artistici per non turbare alcuno status quo, un po’ autoesiliatesi in kermesse intellettuali di nicchia. A prevalere sono state invece tematiche poco impegnative appesantite da strofe stilnoviste di amori melensi e struggenti.
Al contrario, durante la reggenza Amadeus e in particolare quest’anno, si è assistito a una maggiore apertura verso testi di denuncia, in una veste diversa: le canzoni “parlate” hanno lasciato il posto a strofe rap e alla pluricitata cassa dritta.
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Una componente tecnica che si allaccia a un altro dato, di carattere anagrafico: ad esporsi e a cantadenunciare disagi sociali sono stati i giovani e gli artisti emergenti. Quelli affermati, o alla disperata ricerca di un ultimo lampo di notorietà, hanno preferito non uscire dalla propria comfort zone, puntando sui fattori citati in precedenza. Della serie “minimo sforzo, massimo risultato”, al fine di intercettare il gusto dell’ascoltatore medio. Gli è forse sfuggito un piccolo particolare: l’operazione di rebranding condotta da Amadeus ha trasformato leggermente il profilo del target sanremese, che ne ha abbastanza di amori pazzi, rose rosse (belle o appassite che siano), ragazzi che incontrano ragazze e vite di coppia da capolavoro.
Chi sono stati allora i cantanti più politici di Sanremo 2024?
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La lotta di BigMama contro il bullismo
Avellinese, classe 2000, all’esordio al Festival con La rabbia non ti basta, un brano di riscatto dopo anni di sofferenza: prima per il suo corpo, dopo per un linfoma, Marianna Mammone mette in strofa il male che il bullismo può fare. Rivalsa in salsa elettronica, accompagnata da outfit e performance di chi ha smesso di nascondersi, di doversi giustificare per come si è: è lei la vera scoperta di questo Sanremo.
Ghali: quando una canzone vale mille monologhi
Si può parlare di guerre, migrazione e ius soli senza citare apertamente neanche uno di questi argomenti? Se sei Ghali, sì: Casa mia è al contempo un elegante manifesto politico e una terribile fotografia del presente. Il rapper tunisino-baggese immagina un dialogo con un alieno che, osservando la Terra dall’alto, vede confini insensati, molti tracciati con bombe, bambini che soffrono. Come se non bastasse, nella serata cover prende a schiaffi la parte di Stivale che vorrebbe tutti a casa propria, con un medley al veleno. Non ha detto nulla ma ha detto tutto: meritava a mani basse il premio per il miglior testo.
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Dargen D’Amico, la tragedia dei morti in mare e il coraggio di parlare
Se Onda alta fosse un film, sarebbe Io Capitano di Matteo Garrone. Il rapper-producer sfrutta il palco dell’Ariston per raccontare l’odissea drammatica dei migranti nel Mediterraneo; a parlare non sono solo la canzone ma anche gli outfit firmati Moschino: i bambini vittime dei naufragi diventano orsacchiotti cuciti sulla giacca; le parole al vento spese per non-risolvere il problema ricoprono il completo bianco. Come se non bastasse, è il primo ad esporsi pubblicamente, chiedendo un cessate il fuoco in Medio Oriente: da questa edizione non verrà più ricordato solo per il bonus occhiali da sole al Fantasanremo.
La Sad, il gruppo emo trap che parla di suicidio e ansie sociali
Sono loro le schegge impazzite della 74esima edizione del Festival. Theø, Plant e Fiks sono saliti sul palco con tutti i crismi della cultura punk: borchie, pelle, creste, trucco e tatuaggi in vista. Gli ascoltatori più pettinati del Festival hanno rimpianto l’aplomb di Achille Lauro. Autodistruttivo, scritta da Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari, è una canzone sulla perenne ansia da prestazione, sul senso di solitudine e smarrimento che le generazioni più giovani sentono ogni giorno, e che non hanno paura di far emergere. Un gruppo fuoriposto per molti, necessario per tanti.
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Gino Paoli, ospite al podcast Tintoria di Daniele Tinti e Stefano Rapone ha detto che “la canzone di merda non arrivava a Sanremo, invece adesso ci arrivano soprattutto quelle di merda”: il suo è il punto di vista di molti ascoltatori e detrattori del festival, gli stessi che criticano le giovani generazioni di artisti di sterilità politica e sociale ma non tollerano i modi con i quali qualcuno prova a invertire la tendenza. Per usare le stesse parole del cantautore friulano: come si muovono, pestano una merda. L’attivismo politico riparta allora da “C’era una volta una gatta che aveva una macchia nera sul muso”.
Illustrazione di Gloria Dozio – Acrimònia Studios