Una delle poche innovazioni positive legate alla pandemia da Covid 19 è stato l’utilizzo massivo e socialmente accettato dello smartworking, del lavoro da casa. Ma è stato davvero un benefit o piuttosto un frutto avvelenato?
Il lavoro da casa, per alcune categorie, esisteva pure prima della pandemia. Ma è stato con il lockdown e con il “periodo speciale” che abbiamo vissuto che questo strumento si è esteso a quasi tutti i settori. All’inizio, quando tutto doveva essere cantato e suonato come le gesta epiche di Perseo o di Ulisse, anche il lavoro da casa è stato salutato come la soluzione di tutti i problemi, come la mela d’oro caduta dall’albero marcio del Covid. La gara a fantasticare sull’argomento ha portato qualcuno a rilanciare l’idea del recupero dei borghi semi abbandonati e situati nei territori marginali. E in molti si sono sperticati nell’ipotizzare cittadine medievali degli Appennini tirate a lucido e piene di spazi di co-working, con uffici open space stile Google dominati da biliardini e ping pong.
La realtà, come era ovvio fin da allora, era del tutto diversa. I borghi marginali sono rimasti semi deserti e non c’è stata nessuna rinascita legata allo smartworking. Si è trattato dell’ennesima promessa tradita, illusoriamente rilanciata nella continua necessità di creare correnti, trend e movimenti sul nulla. Che poi, era facile comprendere fin da allora, se quei borghi sono così poco popolati e attrattivi è perché sono mal collegati, non hanno infrastrutture e neppure servizi.
Quindi, l’ipotetico smartworker di montagna, avrebbe dovuto essere una specie di eremita, che una volta alla settimana portava le sue tavole, disegnate a mano sull’ardesia, in ufficio. Oppure un artista, un ceramista, ma in questo caso il concetti di smartworking non c’entra nulla. Gli altri, quelli che hanno bisogno di una connessione ad internet, di una farmacia, di un supermercato, magari addirittura di un pediatra, non si sono neppure sognati di trasferirsi in un borgo arroccato e diroccato, meno che mai dopo lo choc del Covid.
Ma è lo strumento smartworking ad essere stato frutto e vittima al tempo stesso della necessità di speculare su questo futuro radioso che dovuto dovuto attenderci quando saremo stati tutti migliori. Lo stesse premesse, a ben guardare, erano illusorie se non palesemente sballate. Ed è facile rendersene conto alla prima telefonata ricevuta da un call center qualunque, con la cortese operatrice che cerca di rifilarci qualche prodotto mentre in sottofondo si sentono i figli che piangono e il nonno che reclama il pranzo.
Le premesse, appunto. Si disse che lo smartworking era l’ideale per conciliare tempi di vita e di lavoro, per chi aveva figli piccoli o anziani da badare, case distanti dal lavoro quanto dall’asilo o dalle scuola. Peccato che, salvo rari casi di rari lavori, tutto questo non sia conciliabile. Se devi veramente stare dietro a uno o più bambini al di sotto dei 12 anni, non avrai tempo, concentrazione ed energie per lavorare. Se devi badare ad un anziano non in buona salute, il tempo per lavorare e per consegnare quella relazione a cui il tuo capo tiene tanto non lo avrai. A meno di non lavorare di notte. Anche perché, altro dettaglio non secondario, smartworking e lavoro da remoto non sono la stessa cosa: sorpresa! Per un lungo periodo si è finto che i due termini fossero del tutto equivalenti, un utile sinonimo per illudere le masse.
Nella realtà invece lo smartworking è un lavoro a progetto: hai una settimana per consegnare un certo lavoro, se vuoi lavorarci da mezzanotte alle sei del mattino, meglio per te. È abbastanza intuitivo che la maggior parte degli impieghi non funzionano “per obiettivi” e quindi il beneficio di stare a casa si traduce nello stare al computer 6-8 ore al giorno, a casa propria, consumando la propria corrente, il proprio riscaldamento, la propria acqua, il proprio caffè, senza allontanarsi troppo dal telefono.
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Questo si chiamerebbe lavoro da casa, suona molto meno figo e di fatto è una sovrapposizione vita-lavoro che genera il doppio dello stress che dovrebbe togliere, privandoci in ultimo anche di quel minimo di socialità lavorativa che, in alcuni casi, serve ad affrontare meglio e con meno fatica i turni giornalieri.
Conciliare tempi di vita e di lavoro è un obiettivo nobile, quanto lontano nel tempo e nello spazio. E lo smartworking non lo avvicina poi molto. A meno che… a meno di non essere un brillante professionista, magari milanese, senza figli da gestire, senza anziani da accudire, senza scuole da raggiungere nell’orario di punta. In questo caso alzarsi un’ora più tardi e lavorare indossando giacca, cravatta e boxer (se non è inverno) può essere senz’altro un plus non indifferente. Ed ecco avverato il miracolo dello smartworking!
Illustrazione di Gloria Dozio – Acrimònia Studios