Un movimento che parte dall’Iran, ma che si è diffuso in tutto il mondo, una lotta per ottenere il semplice diritto di vivere
Facciamo un piccolo esperimento: provate a guardare questa foto, che arriva direttamente dagli anni 70. A quale paese la assocereste? Sono giovani ragazze piene di vita, vestite alla moda, con uno sguardo speranzoso rivolto al futuro. Ebbene questa foto è stata scattata in Iran. Leggendo le news di questi giorni pare incredibile, irreale, associare un’immagine del genere a un paese come l’Iran. E invece questa è proprio la realtà dei fatti.
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La storia della condizione femminile in Iran è carica di contraddizioni, tentativi di modernizzazione e vertiginosi ritorni al passato. Per buona parte del 900, a partire dagli anni 20 fino agli 70, lo scià Reza Pahlav e a seguire il figlio Mohammad Reza Pahlavi, portano avanti una serie di riforme volte a modernizzare il paese, tra cui spicca la Rivoluzione Bianca che, a partire da 1963 offre anche una serie di diritti alle donne, dal voto al sostegno economico alla maternità. La situazione cambia drasticamente con la Rivoluzione Iraniana del 1979 che di fatto ha portato a un passaggio dalla monarchia alla repubblica islamica sciita, la cui costituzione si ispira alla legge coranica.
Torna dunque l’obbligo del velo, che era stato abolito negli anni 30 (sembra veramente surreale ma è così) e le donne iraniane vedono i loro diritti assottigliarsi: non possono più frequentare tornei sportivi, frequentare facoltà di giurisprudenza e sono sottomesse alla legge della Sharia (che prevede tra l’altro la pena di morte per adulterio).
Arriviamo al giorno d’oggi. Da poco più di un mese è esploso un terremoto: il 16 settembre la 22enne Mahasa Amini, residente a Saqqez, nella provincia del Kurdistan, viene arrestata dalla polizia religiosa a Tehran, mentre era in vacanza con la famiglia. La motivazione? Pare una barzelletta, eppure la causa dell’arresto viene imputata a un hijab indossato in modo sbagliato, troppo allentato. Dalla stazione di polizia in cui era stata condotta è uscita in coma, secondo fonti ufficiali, a causa di un infarto, tesi smentita dalla famiglia (la ragazza godeva infatti di ottima salute) e dal fratello che durante il ricovero in ospedale, ha notato lividi e contusioni sul corpo della sorella, segni di pestaggio.
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Morire a 20 anni, morire nel fiore della propria gioventù per un velo indossato male, morire nel modo più barbaro e brutale possibile: l’illogicità folle di una legge che viene applicata senza la minima considerazione per l’umanità. La pura brutalità di questa vicenda ha sollevato una delle più grandi ondate di protesta degli ultimi anni.
Le donne iraniane sono scese per strada, incuranti del pericolo, perché manifestare in questa situazione equivale, se non a una condanna di morte, a un rischio immenso. Un movimento che si è diffuso capillarmente, generando manifestazioni, sit-in, azioni di ribellione: sono donne giovani e anziane che si tolgono il velo e tagliano i capelli, atto che nella cultura curda è un segno di lutto. Ma non sono solo donne, anche uomini, istituzioni, associazioni si sono unite in queste proteste, che non accennano a fermarsi. Al 20 ottobre l’agenzia Hrana, Human Rights Activists News Agency, ha registrato che dall’inizio delle proteste, iniziate intorno al 17 settembre, sono morte 244 persone, tra cui 24 bambini e più di 12.500 sono state arrestate.
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In questi giorni ha fatto scalpore un altro caso, quello dell’atleta Elnaz Rekabi, che ha partecipato ai campionati asiatici di arrampicata sportiva in Corea del Sud, senza indossare il velo. La donna, che si è scusata dicendo che il velo era scivolato “inavvertitamente” si troverebbe ora agli arresti domiciliari. La confessione forzata sarebbe arrivata, stando a una fonte riportata dalla BBC, dopo minacce da parte delle autorità, che avrebbero sequestrato i beni della sua famiglia se non avesse fatto nessuna dichiarazione a riguardo. Eppure la donna è stata accolta al suo ritorno in Iran come un’eroina. Il vento sta chiaramente cambiando.
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Quella a cui stiamo assistendo è una delle più grandi ondate di protesta per gli ultimi anni. E non è solo una battaglia per le donne: è una battaglia per la libertà, per il riconoscimento di diritti negati, contro il fanatismo religioso e per il desiderio, estremamente semplice, banale, che proprio per questo, diviene qualcosa di terribile quando viene calpestato, di costruire un futuro, di esistere, anche se una ciocca di capelli esce dall’hijab. E oggi c’è una consapevolezza che non è mai stata così acuta e una cassa di risonanza come quella dei social, che quando non sono ammantati di un attivismo performativo (vedi varie attrici francesi che si sono tagliate una ciocchetta di capelli per dimostrare la loro “partecipazione”), dove se vuoi portare la verità al di fuori degli organi ufficiali, lo fai e basta.
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Non possiamo prevedere quale sarà l’esito di queste proteste. Ciò che possiamo auspicare è che questo movimento, sostenuto anche dalle associazioni internazionali, possa portare a spiragli, ad aperture, a ricostruire nel tempo una libertà negata. Può apparire molto idealista esprimere un’idea del genere in questi tempi, in cui sembra che il buio, della ragione e non solo, avvolga il mondo. Ma non possiamo farne a meno e non dobbiamo farne a meno, continuando a parlarne, a informarci, a costruire piccoli luci in questo cono d’ombra.
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