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Saman, siamo sicuri di essere innocenti?

Troppo poco, troppo tardi

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Chissà dove sognava di passare l’estate Saman, prima che di lei rimanessero solo quelle foto in cui non voleva altro che essere una ragazza come le altre.

Libera da quella prigione che il destino le aveva cucito addosso e dalla quale cercava di fuggire per vivere come noi. Senza fare del male a nessuno. Senza che nessuno facesse del male a lei.

Adesso che la cronaca ci consegna la ricostruzione di un femminicidio che spacca il cuore del Paese e dà voce alle pulsioni più bestiali, abbiamo il dovere di capire dov’è l’errore. Sempre che un errore ci sia.

Saman Abbas, diciotto anni, origini pakistane, cresciuta in Emilia Romagna, è stata presumibilmente uccisa la notte del 30 aprile per aver rifiutato un matrimonio combinato - meglio, forzato -,  con un cugino che vive in Pakistan secondo le regole dell’Islam più radicale cui la famiglia è devota.

A compiere l’atto sarebbe stato lo zio trentatréenne, Danish Hasnain, definito come un tipo violento e ora ricercato in tutta Europa, intervenuto per chiudere definitivamente la discussione che aveva gettato gli Abbas in una profonda disperazione.

Una famiglia molto chiusa, secondo i racconti dei datori di lavoro e dei vicini. Il padre, Shabbar Abbas, bracciante e tuttofare, la madre, Nazia Shaheen, dedita alle faccende domestiche ed estremamente chiusa, come, d’altra parte, gli altri circa 400 componenti della comunità pakistana, che a Novellara di Reggio Emilia hanno messo le radici.

Saman ha studiato nelle nostre scuole, è stata istruita secondo i nostri principi, voleva una vita normale, come quella delle sue coetanee. Niente di più. Descritta come una ragazza convinta delle proprie ragioni, aveva messo queste ragioni davanti a tutto fino al punto di fuggire da una casa in cui le leggi non erano le stesse alle quali lei faceva riferimento.

 
 
 
 
 
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Dopo lo strappo era stata accolta da una comunità nel modenese gettando nello sconforto la madre e il padre che non si facevano una ragione di quel comportamento e consideravano un’onta insopportabile non poter sottostare all’impegno di dare la figlia in sposa al cugino pakistano.

Da qui il tentativo - riuscito - di far rientrare a casa la ragazza di cui custodivano i documenti, raccontandole che il matrimonio era saltato e che non avrebbe più dovuto trasferirsi in Asia. «Ti prego fatti sentire, torna a casa. Stiamo morendo. Torna, faremo come ci dirai tu» recitava l’sms-trappola inviato dalla madre alla ragazza lo scorso dicembre.

Il ritorno a sarebbe avvenuto quattro mesi dopo, ma la decisione di chiudere da vicenda con l’aiuto dello zio pronto, come avrebbe scritto in chat a un persona vicina, a mettere a termine “un lavoro fatto bene”, era stata presa molto prima.

In questo quadro riveste un ruolo fondamentale il comandante della stazione dei Carabinieri di Novellara, Pasqualino Lufrano. In un servizio apparso sul Corriere della Sera il militare racconta di aver cercato in ogni modo di evitare la tragedia. E fornisce una ricostruzione dettagliata dei giorni che portano alla scomparsa di Saman.

Martedì 20 aprile i servizi sociali avvertono la stazione dei Carabinieri che la ragazza si è allontanata e forse è tornata a casa. Giovedì 22 aprile il maresciallo si reca nella casa dove abita la famiglia. Parla con la ragazza davanti genitori e, dopo aver notato che le sue risposte sono condizionate dalla loro presenza, la invita, con un pretesto a seguirla in caserma.

Saman racconta che è tornata a casa per riavere il passaporto che le è stato sottratto dal padre che ora dice di averlo perduto. Vuole riaverlo per poter lavorare.

Il maresciallo la informa che chiederà un mandato di perquisizione per recuperare il documento e, nel caso non venisse trovato, farà da tramite per avere una copia. A patto che la ragazza accetti di rientrare in un centro protetto.

Il giorno dopo Lufrano si rivolge ai servizi sociali per trovare un posto alla ragazza e chiede al pm un decreto di perquisizione. É venerdì 23 aprile: il decreto arriverà mercoledì 28, 5 giorni dopo.

La risposta dei servizi sociali giungerà addirittura il giorno successivo e nonostante le insistenze del militare sarà irrevocabile: il posto si renderà disponibile lunedì 3 maggio, non prima.

Troppo tardi. Quando i servizi sociali e i Carabinieri si recheranno nell’abitazione degli Abbas troveranno soltanto lo zio e il fratello che, prima di darsi alla fuga, racconteranno che la ragazza è andata volontariamente in Pakistan con i genitori. La sera dello stesso giorno scatterà l’indagine sul presunto sequestro di persona quando a a casa Abbas non è rimasto nessuno.

Otto giorni, otto lunghissimi giorni. Sono quelli trascorsi dal momento in cui il maresciallo parla con la ragazza alla sera in cui si ritiene che lo zio uccida Saman strangolandola.

Otto giorni in cui lo Stato rimane prigioniero delle sue lentezze, nonostante i ripetuti allarmi lanciati dal maresciallo dei Carabinieri che per primo aveva capito quanto fosse urgente intervenire.

L’estate di Saman non inizierà. É stata uccisa dal fanatismo tribale di una famiglia di immigrati ancorata a pratiche medioevali. Ma noi, con le nostre lentezze, i nostri pregiudizi, la nostra paludosa burocrazia, siamo davvero sicuri di essere del tutto innocenti?