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Riflessioni sul fenomeno hikikomori: intervista a Marco Crepaldi

Il fenomeno di isolamento sociale per lunghi periodi

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Dal giapponese hiku (tirare) e komoru (ritirarsi/chiudersi): letteralmente stare in disparte. Un fenomeno di isolamento sociale per lunghi periodi, originario del Giappone ma ormai diffusosi in tutto il mondo, che colpisce soprattutto i giovani (tendenzialmente maschi, tra i quattordici e i trent’anni). Ne parliamo con Marco Crepaldi, presidente e fondatore dell’associazione Hikikomori Italia, nata con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema. Come riportato sul sito di questo progetto: “lo scopo è quello di capire, non curare”.

Chi è Marco Crepaldi, oltre al fondatore di Hikikomori Italia?

Marco Crepaldi è uno psicologo che si occupa di divulgazione online di vari temi: gli hikikomori è quello su cui sono più competente e che studio da più tempo, ma amo anche spaziare in altre tematiche di psicologia e attualità. In generale, sento di definirmi un content creator, che ama fare video, podcast e live: amo parlare delle mie competenze e acquisirne altre confrontandomi con le persone.

 
 
 
 
 
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Galeotto fu l’anime o colpa dell’università? Come ti sei avvicinato a questa tematica?

I primi mi hanno fatto conoscere la parola hikikomori, la seconda mi ha permesso poi di approfondirla e di scriverci una tesi, da cui poi è nato il blog. Direi che l’anime è stato solo l’incipit del mio interesse, il merito maggiore è del percorso universitario.

Esistono associazione simili in Giappone? Collaborate?

Che io sappia, non esistono associazioni nazionali come Hikikomori Italia, né in Giappone né nel resto del mondo: siamo molto innovativi da questo punto di vista. Ho avuto però contatti con altre realtà associative, anche in Giappone, con cui non ci sono vere e proprie collaborazioni stabili, ma scambi di informazioni.

 
 
 
 
 
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C’è consapevolezza del fenomeno (e quindi un contrasto) tra i giapponesi, oppure è così normalizzato che il dibattito è assente?

Conoscono bene il fenomeno, lo conoscono tutti, però non se ne parla molto: questo è dovuto anche alla natura dei giapponesi, che preferiscono non esporre a livello internazionale i propri problemi sociali. Viene gestita prevalentemente dal ministero della salute e dagli addetti ai lavori.

Qual è l'identikit dell’hikikomori? Ci sono delle differenze “geografiche”? Mi spiego meglio: riscontrati comportamenti comuni, ci sono manifestazioni differenti di questa sindrome in Giappone, Stati Uniti ed Europa?

Ti posso parlare di alcune differenze che ho riscontrato tra i dati italiani e quelli giapponesi. Ad esempio: gli hikikomori italiani sembrano avere un rapporto con i genitori meno chiuso rispetto ai giapponesi. Inoltre, è più frequente che questi ultimi inizino l’isolamento nel post diploma rispetto ai primi, che invece cominciano tra le scuole medie e le superiori.

 
 
 
 
 
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Meglio parlare di fenomeno, sindrome o patologia? Come è riconosciuta dalla comunità medica?

Si può parlare di una sindrome, data la similitudine dei sintomi che accomunano tutti i casi. Ad oggi la comunità medica non riconosce la sindrome degli hikikomori: sono sicuro però che, nei prossimi anni, questa parola entrerà nel linguaggio medico ufficiale, essendo al centro di molti studi scientifici nazionali ed esteri. È un fenomeno sociale, quindi non necessariamente un’etichetta diagnostica: potremmo definirla una sindrome che può avere componenti patologiche col passare del tempo.

Tra le cause che portano a questo isolamento volontario (cito il sito dell’associazione) ci sono “il rifiuto della scuola”, vissuto come ambiente negativo, e le “pressioni di realizzazione sociale”. Mi viene in mente la notizia, riportata su La Repubblica un mese fa, sull’abuso di benzodiazepine tra gli studenti per combattere “l’ansia da interrogazioni”: un’anticamera dell’hikikomori?

Sicuramente se è data dall’ansia sociale del giudizio sì; se è data dalla paura di prendere voti negativi un po’ meno.

 
 
 
 
 
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Socialità e persino sessualità dell’hikikomori sembrano dipendere dal virtuale, è così? C’è una correlazione tra questo disturbo e la nomofobia, ovvero la paura di essere disconnessi?

L’hikikomori non ha paura di essere sconnesso perché ha sviluppato una vera e propria dipendenza dalla rete; ne ha bisogno per rimanere connesso al mondo, da un punto di vista pratico. Diciamo che ne dipende più di altri. La sessualità spesso non la vive direttamente ma attraverso pornografia e autoerotismo. Così come la socialità: tramite videogiochi, forum, chat, videochiamate. Non è però un tipo di relazionalità che soddisfa l’hikikomori.

Quali sono le difficoltà che come associazione incontrate ogni giorno? Siete supportati dalle istituzioni, sanitarie e non, oppure dovete combattere per aprire gli occhi su un fenomeno sociale in aumento?

Sicuramente dobbiamo combattere: è una realtà sempre più conosciuta ma non così tanto ancora. Le difficoltà riguardano soprattutto la ricerca di risorse per finanziare i nostri servizi, in particolare per offrire le sedute gratuite ai ragazzi che si rivolgono a noi. E ancora: trovare psicologi che volontariamente prestino parte del loro tempo per coordinare i gruppi di auto mutuo aiuto dei genitori. È il servizio più importante per loro: ci contattano da tutta Italia e spesso, per motivi economici o di carenza di supporto territoriale, sono lasciati a loro stessi.

 
 
 
 
 
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Un’ultima domanda: molte famiglie si sono rivolte alla tua associazione, ci sono casi di ragazzi che hanno sconfitto l’isolamento e ora collaborano con te?

Ci sono molti ragazzi che sono venuti a diversi eventi, portando la loro testimonianza e il loro vissuto. Hanno parlato soprattutto con i media: giornalisti e tv vogliono le storie, non gli esperti come me; vogliono che qualcuno parli del proprio dolore e della propria sofferenza. Chi ha deciso di farlo, sicuramente ha collaborato con noi in maniera indiretta.

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