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Il bizzarro caso della multa alle pallamaniste norvegesi

Sembra il titolo di un romanzo ma così non è: surreali vicende di sessismo più vere che mai (ancora)

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Avete presente quelle meme con la vignetta di una città meravigliosa, super-futuristica ma immersa nella natura, accompagnate da una didascalia del tipo “ecco come sarebbe la nostra società se non ci fosse [inserisci il nome di una cosa altamente negativa]”. Ecco probabilmente sarebbe un mondo più bello e più petaloso senza stupide vicende di sessismo, così stupide che non sembrano vere. E invece.

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da Norges Håndballforbund (@handballandslagene)

Non è un articolo di Lercio (o di The Onion, se avete una vena internazionale): durante gli Europei di pallamano la nazionale femminile norvegese ha deciso di presentarsi alla partita per la medaglia di bronzo contro la Spagna senza la canonica divisa-bikini, perché considerata sessista.

Risultato: multa alla squadra di 1500 euro da parte della Federazione Internazionale (ogni giocatrice dovrà pagare 150 euro), per “abbigliamento improprio”, come riporta la Commissione disciplinare dell’Associazione europea e rischio di squalifica.

Perché pare una cosa assurda, ma la divisa delle giocatrici di pallamano impone il bikini. E non un bikini qualsiasi, ma un costume definito nei minimi dettagli, con gli slip del bikini dalla vestibilità aderente e tagliati con un angolo verso l’alto verso la parte superiore della gamba e l’altezza della stoffa sul fianco non superiore ai dieci centimetri.

Neanche per progettare la planimetria di una casa si usano misure così precise. E l’effetto è ancora più ridicolo se si osserva che il regolamento prevede per gli uomini una semplice combo canotta+pantaloncini sotto il ginocchio, dove i pantaloncini non sono definiti sino all’ultimo centimetro, basta che non siano “troppo larghi”. E vedere la nazionale femminile e maschile una di fianco all’altra ci fa capire quanto questo contrasto sia assurdo.

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da Hear Her Stories 📣 (@hearherstories)

E qui si spalanca davvero un abisso. Perché non stiamo assolutamente parlando di questioni di praticità o di maggiore performance sportiva: queste regole sono semplicemente ridicole.

La Federazione Norvegese ha espresso solidarietà per le proprie atlete, offrendosi di pagare la multa e auspicando un futuro all’insegna di un abbigliamento più inclusivo, mentre la Federazione Internazionale ha reso noto con un comunicato che aveva sollevato la situazione lo scorso aprile, ma poi non si è fatto nulla di fatto.

Qui entrano in gioco diverse questioni. La disparità di trattamento in primis, totalmente ingiustificata. La totale assenza di norme pratiche legate alla divisa: stiamo parlando di atlete, di professioniste che si allenano duramente per ottenere una performance, per essere forti e potenti.

Eppure quando si parla di atlete donne, inevitabilmente entra in gioco il fattore estetico. Prima di essere capaci e conquistare medaglie devono essere attraenti, altrimenti aiuto. Alzi la mano chi, navigando sull’internet, soprattutto in periodo Olimpiadi o tornei vari ed eventuali di sport, non è incappato nelle varie gallery dedicate alle “atlete più sexy”?

Lungi dal fare ragionamenti moralisti, qui si parla di giudicare le atlete per le loro capacità, com’è giusto che sia. Di slegare definitivamente l’idea che ogni donna sia prima di tutto un corpo e basta.

C’è anche un discorso molto interessante sul body shaming. Potremmo dire che è quasi la faccia opposta della stessa medaglia: il corpo femminile è sempre sotto una lente d’ingrandimento, che sia per sessualizzarlo o per denigrarlo, perché non conforme a un presunto mitologico standard estetico.

Martine Welfler, una delle giocatrici norvegesi ha dichiarato al New York Times: “Non vedo perché non dovremmo giocare con i pantaloncini. Con il body shaming che circola in questi giorni, dovremmo essere libere di coprirci un po’ di più quando giochiamo”.

La Federazione Norvegese è da tempo molto attenta a queste tematiche, tanto che nel 2006 aveva già scritto una lettera di protesta alla Federazione Internazionale, notando come molte atlete si sentano a disagio a indossare abiti così succinti e come fossero considerati poco rispettosi per alcune culture.

L’autodeterminazione di essere libere di sentirsi a proprio agio, facendo qualcosa che si ama e a cui si dedica la propria vita. Donne o uomini, who cares. Ciò che conta alla fine è il gioco.