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Fine corsa del governo di unità nazionale

Il 14 luglio alle ore 18.35 il presidente Mario Draghi annuncia le sue irrevocabili dimissioni davanti al consiglio dei ministri

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Sarà un caso, come ragionava il direttore in riunione di redazione, che i due leaders europei più intransigenti con Vladimir Putin, Mario Draghi e Boris Johnson, siano saltati nel giro di pochi giorni? E sarà sempre un caso che mentre il premier Draghi, dopo un velocissimo colloquio al Quirinale, veniva pressato dalla maggior parte delle forze di coalizione e dalle cancellerie di mezza Europa, per farlo rimanere al suo posto, Matteo Salvini, nemmeno fosse in un suk di Marrakech, dettava le sue condizioni per mantenere la Lega nella compagine di governo?

Per il momento non ci resta che registrare la cronaca, lasciando alla Storia tutte le risposte.

Quello che avrebbe dovuto fare un vero governo di unità nazionale lo si può spiegare attraverso una metafora sportiva. 

Nelle vecchie radio cronache dello sport più amato dagli italiani, il ciclismo, per anni le parole più ricorrenti erano: “Un uomo solo al comando...”. E una volta era Coppi e un’altra era Bartali e ancora, oggi sarà sempre Bartali e domani lo diverrà Coppi. 

I Duellanti, avrebbe detto Conrad. Così diversi da avversari in gara, sanguigno il primo freddo il secondo e poi così amici nel privato, dotati ambedue della stessa potenza fisica e caratteriale.

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da MC_GALASSO1980 (@mc_galassofficial80)

Se lo Sport è una metafora della vita e quindi anche della politica, la foto che meglio rende quella che dovrebbe essere una corretta Unità Nazionale è quell’iconica istantanea scattata da Carlo Martini, fotoreporter dell’Omega Fotocronache, il 6 luglio 1952 al Tour de France, il passaggio della borraccia d’acqua tra i due. 

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da GiPa1985 (@gipa.1985)

A distanza di settant’anni ancora permane il mistero di chi la passò a chi!

Poco importa, rimane la grande lezione di solidarietà, anche tra avversari, nel momento di bisogno.

La politica italiana di oggi pare non aver compreso quella lezione; il premier Draghi è stato un uomo solo al comando (più solo, che…) avendo dietro di lui una serie di molluschi, politicamente parlando, interessati solo al loro piccolo cabotaggio preelettorale, come se pandemia, guerra e prossima legge di bilancio, che sarà un Vietnam, non fossero emergenze drammaticamente prioritarie per il Paese.

Dopo averlo messo in croce con la falsa storia delle sue presunte ambizioni per il Quirinale, non hanno perso occasione per minarne la credibilità nazionale e cosa più importante per l’Italia, internazionale. 

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da Mario Draghi (@mario.draghi.official)

Non ultime le critiche per aver stretto accordi commerciali con il premier turco, Erdogan, prendendo a pretesto la questione curda della quale fino a ieri non conoscevano nemmeno l’esistenza. Senza voler tenere conto del fatto che in piena crisi di guerra si fa di necessità virtù, negli esclusivi interessi del proprio Paese. 

La verità è che questi “leoni della politica” sanno solo criticare in maniera speculativa, senza aver nessuna soluzione in tasca; non hanno un’idea essendo privi di un “Pensiero”. In democrazia criticare è lecito, necessario e sano se a questo si aggiungono proposte alternative, se non ci si vuol limitare a una becera demagogia, priva di quel minimo decente senso di responsabilità istituzionale. 

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da Camera dei deputati (@montecitorio)

Del quale ovviamente sono sprovvisti!

Lontani dall’essere degli esegeti di Draghi, al quale si possono attribuire alcune scelte non condivisibili, gli si deve riconoscere, comunque la si pensi, onestà, capacità non comuni e uno spiccato senso dello Stato. Un economista del suo calibro lascia con i conti in pareggio e mai avrebbe varato una finanziaria in deficit, cosa che tutti i partiti avrebbero preteso a settembre. Guerra o non guerra.

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da Il Difforme - Quotidiano Indipendente (@ildifforme)

Una volta c’era una teoria macroeconomica, alla quale qualche “dittatorello scemo” oggi ancora si attiene, che per indicare la potenza di una nazione non calcolava il pil, la finanza o l’estrazione del petrolio ma considerava la grande capacità di produzione di acciaio, cemento armato e armamenti, tralasciando in secondo piano prodotti basici alimentari come grano e riso. Folle, ma a ben guardare è una sorta della tanto declamata “economia di guerra”, oggi così evocata.

Chi è già un po’ avanti negli anni, di certo ricorderà le tante scatolette di spilli, aghi e spille da balia che possedevano le nonne nelle loro ceste “ago e filo”. Ebbene quelle scatolette erano un retaggio di chi aveva vissuto una, se non due guerre mondiali e quegli aghi, quegli spilli, altri non erano che la moneta corrente durante i conflitti per acquistare pane, olio e uova, quando raramente si trovavano al mercato nero. 

Microeconomia di guerra, appunto!

Sono arrivati a dargli del guerrafondaio solo perché ha insistito nel voler difendere quei tanto decantati “valori” di tutti quelli che invocano la pace.

Che poi, come dice il Cipputi: “La pace è una bella parola, tutti la vogliamo. Il problema sono i dettagli”.