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Cosa viene censurato nei film e perché?

La censura cinematografica è sempre stata “croce e delizia” per le produzioni rampanti

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Era inevitabile che accadesse, due grandi “chiese” come DC e PCI, fortemente cattoliche e ancora sostanzialmente misogine, piene zeppe di beghine e bigotti, trovassero il loro primo punto d’intesa nell’introdurre, in fase Costituente, l’Articolo 21 nella Carta repubblicana, che tratta il divieto di “pubblicazioni oscene”, riferito anche alle creazioni cinematografiche. Iniziava l’anno 1948.

La censura cinematografica è sempre stata “croce e delizia” per le produzioni rampanti, è stato terreno di scontro ideologico tra politica e gli autori del neorealismo, soprattutto sono stati, come diceva Andy Warhol, “I quindici minuti di notorietà” di tanti “piccoli” pretori di provincia che per conquistarsi benemerenze presso i vari Vescovadi, nel nome del comune senso del pudore, sequestravano le pellicole considerate pruriginose, dalla sala.

Il più clamoroso caso di censura cinematografica, conclusosi col rogo è: “Ultimo Tango a Parigi”, di Bernardo Bertolucci. Ebbene, in questo caso la censura fu la vera fortuna della pellicola. Parliamo di un film banale, noioso, con dialoghi improbabili che fanno il verso a quelli del più oscuro Antonioni; un film, che se fosse rimasto in sala difficilmente avrebbe coperto le spese.

 
 
 
 
 
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Una fotografia che “il suo autore” (?) Vittorio Storaro, replicherà all’infinito per tutti i suoi successivi film. E poi si autodefiniscono Autori!

Due sole note positive: lo splendido cappotto di cashmere indossato da Marlon Brando (ripreso anni dopo da Alain Delon ne La Prima Notte di Quiete”, di Valerio Zurlini) e la struggente musica suonata dal sax di quel genio di Gato Barbieri. Per la cronaca, il rogo fu una sceneggiata che vide andare a fuoco un controtipo del negativo e non il negativo originale.

Quello che passa per essere stato il più grande censore del cinema italiano è Giulio Andreotti, allora giovanissimo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio negli esecutivi guidati da Alcide De Gasperi dal 1947 al 1954.

In realtà Andreotti adorava il cinema, si narra di una violenta crisi di gelosia della moglie nei confronti Anna Magnani e fu grazie alla sua legge, del 49, che con la tassa posta alle Produzioni americane in Italia, trovò il modo di ricostruire le macerie di Cinecittà e favorire le Produzioni italiane. Certo, doveva tenere conto delle pruderie degli ambienti vaticani, cercò di farlo con autoironia e sdrammatizzando sempre il conflitto con gli autori.

 
 
 
 
 
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Quelli erano tempi in cui persino il Tango veniva considerato un ballo osceno e in ambienti vaticani, c’era chi spingeva il Papa a pronunciarsi per la scomunica. Pio XII decise di assistere dal vivo a un’esibizione del ballo e dopo averlo visto ne decretò la liceità. Quando si dice essere “Più realista del Re”!

Perfino il devotissimo Alberto Sordi fu convocato in “camera caritatis”, in Vaticano, al cospetto di un influente Monsignore che gli rimproverò il personaggio interpretato in “Mamma mia, che impressione”, di Roberto Savorese, nel quale Sordi mette alla berlina un giovane dell’azione cattolica.

Peccato che nel mentre il Monsignore spiegava all’attore che i giovani dell’associazione non erano come li aveva rappresentati, entrò trafelato, nella sala, un giovane chierico copia conforme del personaggio interpretato da Sordi. I due si lasciarono con uno sguardo di rassegnazione. 

Il vero grande scontro tra Andreotti e il neorealismo fu ideologico e riguardò un film in particolare: “Umberto D”, di Vittorio De Sica. In questo caso, il giovane sottosegretario, era fortemente convinto che quella pellicola fosse devastante per l’immagine verso l’estero dell’Italia.

La leggenda vuole di una frase dirimente, pronunciata in privato: “I panni sporchi si lavano in famiglia”. E’ chiaro perché i film di Guareschi, i famosi Don Peppone” ricevessero molti più aiuti economici dei film di De Sica.

Discorso a parte riguarda la vicenda del film franceseRififi”, di Jules Dassin e tratto dal romanzo di Auguste Le Breton, che collaborò alla sceneggiatura. In questo caso si trattò di ordine pubblico; i tagli riguardarono soprattutto la scena di come con l’ombrello si raccoglievano i calcinacci causati dal “buco”, senza far rumore. Insomma non si voleva insegnare ai ladri a rubare.

Le produzioni italiane “più garibaldine” giocarono con la censura come il gatto con il topo. Ottenere” il bollo di Vietato anni 14, limitava i danni alle sole sale parrocchiali, procurava ottima pubblicità alle presunte scene pruriginose, permettendo così ottimi incassi nei cinema di seconde e terze visioni.

Per i rari film bollati con Vietato anni 18, diventava una questione “Artistica”, con l’inevitabile, stucchevole dibattito culturale.

La cattolicissima provincia italiana è sempre stata la base e la “start up”, come si dice oggi, dell’innovazione culturale italiana, quello che si è sviluppato nelle grandi città è nato in provincia. Ma è stato anche il modello sociale dei Vizi privati e Pubbliche virtù”, ovvero l’eterna ipocrisia della borghesia.

È in questo terreno che tanti pretori si misero in mostra, sequestrando le pellicole che loro ritenevano “osè”, contrarie alla “morale” e pericolose per le coscienze. Il sesso come demonio, come Santa Romana Chiesa comanda. Corre l’Anno 2021.