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Abbiamo chiesto a una curatrice d’arte italiana cosa significa lavorare a Berlino

Qual è il percorso da affrontare per curare una mostra?

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In occasione del mese della fotografia a Berlino, abbiamo fatto qualche domanda a Silvia Carapellese. Giovane curatrice d'arte, ci ha raccontato cosa significa organizzare una mostra fotografica e soprattutto cosa vuol dire per un'italiana poterlo fare all'estero.

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Ciao Silvia, prima di tutto cosa ci fai a Berlino? 

Ciao! Bella domanda… Due anni fa ho deciso di partire con pochissimo preavviso per avventurarmi nella capitale tedesca e scoprirne la creatività. Rimasta affascinata da un viaggio nella primavera del 2018 e colpita dagli allestimenti di mostre non convenzionali, fotografiche e non, ho scelto di trasferirmi qui nell’inverno dello stesso anno. Ho iniziato la mia avventura con uno stage in una galleria fotografica nell’elegante quartiere di Charlottenbourg. Poi, sono arrivate altre esperienze, una dopo l’altra, facendo un po’ di networking attraverso i social media, mantenendo i contatti con l’Italia, ma soprattutto andando a curiosare le varie gallerie e installazioni presentandomi e facendo domande a chi ci lavorava. Cosa che continuo a fare tutt’ora.

Cosa fa nel dettaglio una curatrice di mostre? Cosa significa farlo in Germania? 

La curatrice o il curatore è colui che collabora a stretto contatto con gli/le artisti/e con lo scopo di creare un progetto che abbia come fine un’esposizione, che sia virtuale, in uno spazio fisico o su un libro. Nel mio caso sono particolarmente interessata e mi occupo di fotografia contemporanea. Curare una mostra significa prendersi cura dello spazio, delle opere e degli artisti, dall’inizio alla fine di questo processo: scelta degli artisti, del tema e delle opere, le spedizioni, gli sponsor, i vari testi critici d’accompagnamento e molto altro. Ovviamente dipende molto anche dalla natura della mostra, se indipendente, supportata da un’istituzione o all’interno di una galleria.  Fare tutto questo a Berlino per me significa in aggiunta anche doversi rapportare con diversi linguaggi e culture, quella tedesca ma anche quella di tutti gli Expat, come me, che la città accoglie.

Ottobre è il mese della fotografia a Berlino, la città è in fermento o tutt’ora sofferente causa pandemia? 

L’1 ottobre inaugura il Berlin EMOP (European Month of Photography) e in questo periodo c’è parecchio fermento: diversi festival culturali stanno avendo luogo, nel rispetto delle dovute precauzioni ovviamente. Berlino d’inverno è cupa e stanca, i berlinesi aspettano l’estate tutto l’anno. Nonostante la crisi pandemica mondiale, i ritmi non si sono fermati troppo a lungo con l’arrivo delle lunghe giornate. Molti degli eventi che erano stati annullati e sospesi sono stati ripresi a cominciare da settembre; molti musei e gallerie hanno ricominciato ad aprire già da giugno, progressivamente tornando agli orari di apertura normali. La situazione in Germania è stata trattata molto diversamente dall’Italia, per via anche delle diverse esigenze in termini di strutture sanitarie. Tuttavia il mondo dell’arte, dei freelance e le piccole attività ne hanno risentito molto anche qui.

Hai curato la mostra che racconta la collaborazione tra la fotografa Esther Haase e IMAGO Camera, una fotocamera analogica gigante. Raccontaci meglio di questo progetto quasi tutto al femminile. 

Siamo molto fiere del nostro team ormai quasi tutto al femminile intorno all’IMAGO Camera, la galleria/studio fotografico che porta il nome della stessa macchina fotografica gigante. Susanna Kraus, il direttore artistico, è stata uno dei primi incontri che ho fatto a Berlino. Con lei ho sviluppato tante idee e progetti, alcuni dei quali saltati per via della pandemia e conseguente chiusura dei confini. “Beflügelt” è il primo nuovo allestimento pensato dopo la quarantena. Abbiamo voluto mettere in mostra una serie inedita realizzata nel 2014 tramite IMAGO Camera da Esther Haase, nota fotografa di moda tedesca. Essendo un tipo di macchina unica al mondo, si trattava di una sfida particolarmente curiosa. Da qui è nata l’idea qualche anno fa: proporre l’utilizzo della macchina ad altri fotografi, abituati a sistemi ottici e manualità completamente differenti. IMAGO è una “walk-in-camera” vale a dire che il soggetto può letteralmente entrarvi dentro, è analogica, è dotata al contempo di una camera oscura e di una sala pose, ed è in grado di produrre un’immagine su pellicola istantaneamente. Si ottiene in pochi minuti una stampa analogica in bianco e nero a grosso formato (life size). La sfida è stata organizzare uno shooting di moda con questo tipo di tecnologia, servendosi dello sguardo di Esther Haase e delle competenze tecniche di Susanna Kraus. “Beflügelt”, il nome della mostra, significa “dotati di ali” ma ha anche un duplice significato legato all’essere ispirati. Si tratta di una sorta d’ispirazione che tradizionalmente veniva dall’esterno: il sentirsi leggeri e sospesi nel tempo e nello spazio. Proprio come lo sono le modelle nei loro abiti, avvolte da un’aura. Aura che solo alcuni tipi di fotografie possono sprigionare, ricordandoci i primi ritratti in bianco e nero della storia.

Come approcci ad un progetto di questo genere? È importante sentirti in linea con quello che stai curando? 

Tendenzialmente sì, è importante che ci sia quantomeno un’affinità con gli artisti e soprattutto con le opere. Il curatore deve essere in grado di tirar fuori quel che talvolta gli artisti timidamente non riescono ad esprimere. Generalmente parlando è chiaro però che nei primi anni di una professione non è tutto così semplice, spesso bisogna scendere a compromessi. Si accettano lavori non pagati, si accettano progetti non sempre entusiasmanti, ma si accettano anche tante sfide che fanno crescere il bagaglio d’esperienza.

Qual è la sensazione che provi una volta messa la parole “fine” su un progetto che hai seguito. 

Una volta che arriva il giorno dell’inaugurazione, quando è tutto pronto, si tira un sospiro di sollievo. Il giorno dopo invece si pensa al prossimo progetto. È un ciclo continuo, che credo valga per chiunque nei settori creativi. Pur sapendo che l’inaugurazione è solo l’apertura di una mostra, in termini lavorativi è un po’ come se fosse una conclusione perché corrisponde al risultato finale di mesi, settimane, o a volte anni di lavoro.