Se prima erano le grandi case di moda a dettare le regole, ora con la presa di potere dei social media, la democratizzazione del lusso (e della moda in generale), il fast fashion e i fenomeni sociali che hanno un impatto sempre più importante, i parametri sembrano essersi invertiti
Nel 1899 il sociologo statunitense Veblen elabora la teoria del Trickle-Down, basata sull’idea che i trend partono dai ceti sociali più alti per arrivare poi a quelli più bassi, e quindi a tutta la popolazione.
La teoria è incentrata su uno sviluppo verticale della gerarchia sociale, in particolare si sosteneva che le classi sociali più ricche volevano distinguersi da quelle più povere, mentre quest’ultime aspiravano costantemente a diventare, o meglio apparire, come le più elevate.
Succedeva quindi che non appena le classi inferiori adottavano lo stile degli aristocratici e dei nobili, era già tempo di cercarne uno nuovo per ristabilire il divario.
Non è infatti un caso che la prima vera fashion influencer e trend setter sia stata Maria Antonietta, moglie del Re francese Luigi XVI.
Passiamo al secolo successivo, alla nascita delle grandi maison di lusso, per la maggior parte francesi, come Chanel, Christian Dior, Yves Saint Laurent, Madelaine Vionnet e tutti gli altri couturiers dell’epoca. Questi personaggi hanno proposto silhouette nuove e look innovativi creando capi iconici e un’identità ben definita. Erano loro che dicevano alla popolazione come vestirsi.
Arriva poi il turno degli italiani con l’abbigliamento ready-to-wear che porta il gusto, la tradizione, il know-how e l’estetica italiana in tutto il mondo. E tutti, ovviamente, vogliono copiare le passerelle di Parigi e Milano.
Parallelamente a tutto questo, ci sono le subculture, fenomeni quali la musica e i movimenti sociali che con il loro linguaggio espressivo sono da sempre fonte di ispirazione dei più rinomati stilisti. Conosciamo tutti lo strettissimo legame tra Vivienne Westwood e il movimento punk, lo stile della musica e cultura hip-hop anni ’80 con lo streetwear o la rivoluzione giovanile degli anni ’60 e la nascita della minigonna di Mary Quant.
Arriviamo a fine anni ’80, quando si inizia a parlare di fast fashion: è il New York Times che introduce nel 1989 per la prima volta il termine riferendosi all’apertura di Zara nella Grande Mela, indicando appunto la velocità con cui i capi venivano pensati, prodotti e cambiati in negozio, non seguendo un ritmo stagionale come la maggior parte dei brand, ma avendo ritmi incessanti.
Ecco che il focus di questo modello di business è il marketing a 360° gradi, modello non più incentrato sulla creatività, sull’originalità e sul valore del brand e dei capi, ma sulla velocità di produzione.
Ad ogni modo, il fast fashion ha giocato un ruolo fondamentale nella diffusione di massa dei trend, offrendo una vasta gamma di alternative alla portata di tutti: prendendo come esempio Zara, non è un segreto che entrando in negozio si possono già trovare capi ispirati ai pezzi più acclamati della fashion week appena conclusa.
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Tutto questo da il via a due fenomeni: da una parte la moda si democratizza, in quanto chiunque può avere accesso agli ultimi trend, dall’altra si velocizza, proponendo un cambio di collezione sempre più frequente che influenzerà anche i ritmi dei grandi marchi.
Se quindi fino a pochi anni fa erano le case di moda più rinomate a proporre i trend in passerella – attenzione: con “proporre” non intendo inventare, ma portare alla luce e rendere popolari dei concetti e dei fenomeni, che prenderanno il nome di trend, già esistenti! – per poi essere copiati e adottati dal fast fashion e dal pubblico, ultimamente si sta assistendo sempre di più ad un ribaltamento del funnel.
Internet e i social media hanno sicuramente avuto un ruolo fondamentale in tutto ciò, togliendo molte volte il primato alle grandi firme e alle trend forecasting agencies di scoprire un trend e farlo diventare virale (pensate alla tendenza tie-dye della scorsa estate).
Avere uno strumento che non solo da l’opportunità di avere una finestra sul mondo a portata di mano, ma da il potere di regalare visibilità con un semplice click, ha reso molti processi più facili e veloci a tutti: chiunque può averne accesso.
In questa situazione poi, dove il mondo online è l’unica realtà disponibile per esplorare ed ampliare il nostro sguardo, anche per gli stilisti, l’inversione di tendenza sembra confermarsi.
È infatti dal mondo digitale che si stanno diffondendo gli ultimi trend.
Il 2020 ha visto nascere e crescere moltissimi brand e retailers online, il cui business model è prettamente sviluppato sul digitale: ecco il caso del boom dell’online fast fashion come per Pretty Little Thing, che ha iniziato a sviluppare un’identità sempre più definita, proponendo capi che diventeranno presto popolari come i bike shorts rilanciati qualche anno fa, ma arrivati sulle passerelle solo ultimamente (guardate la sfilata SS21 di Saint Laurent).
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Non solo, è durante la prima quarantena che il brand eco-sostenibile Pangaia raggiunge il successo globale: le tute comode, pulite e semplici accompagnano perfettamente le nostre giornate a casa. Ecco che anche Zara inizia a proporre tute molto simili, il loungewear acquista sempre più mercato e inizia a mettere piede nelle collezioni ready-to-wear.
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Su Tik Tok l’hashtag #DarkAcademia ha centinaia di milioni di contenuti in tutto il mondo. Dark Academia non è solo una tendenza ispirata allo stile preppy dei college privati inglesi della Ivy League (ecco che la mancanza dei banchi di scuola si fa sentire), ma una vera subcultura.
Lorenzo Serafini si basa proprio su questo concetto nella sua ultimissima sfilata FW21 di Philosophy, portando in “passerella” i toni freddi, i tessuti e le uniformi scolastiche rese più cool. Il fashion designer italiano dice infatti che questa collezione vuole essere un omaggio ai ricordi legati alla scuola che i giovani di oggi non posso avere.
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Tramite i social media siamo quindi noi i veri protagonisti: non dobbiamo più aspettare che i giornali ci dettino cosa andrà di moda e cosa no, ma diventiamo componente attiva del gioco, perché con un semplice “like” possiamo contribuire alla diffusione di nuovi trend.