Tra critiche e complimenti, impossibile ignorare il nuovo capitolo di Gucci. Riuscirà De Sarno a far innamorare ancora, e ancora, e ancora?
Ancora prima che fosse presentata al mondo, della collezione debutto di Sabato De Sarno per Gucci se ne è parlato tanto, quasi troppo.
Tra speculazioni, associazioni (e sopratutto dissociazioni) con il passato del brand, il rischio di rompere l’incanto era alto.
Ma con 55 look emersi dalle luci rosse del Gucci Hub di Milano oggi pomeriggio, sulle note della musica di Mark Ronson, la collezione del nuovo direttore creativo del marchio fiorentino è riuscita a fare un primo passo verso l’obiettivo: far innamorare ancora, e ancora, e ancora.
Se il pericolo di annoiare o peggio, essere banali, era così alto, lo si deve solo all’impatto culturale dell’ex designer Alessandro Michele, che con il suo destrutturare per poi ristrutturare ha regalato a Gucci un record di incassi e una fama oltreoceano forse paragonabile solo al periodo Tom Ford, nonostante le due estetiche non potrebbero essere più diverse.
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Con dolcezza e umiltà, dal 2015 alla dipartita, Michele ha fatto arte oltre che moda. Ha celebrato i 100 anni di Gucci, diretto film e campagne pubblicitarie che hanno toccato epoche e stili diversi per raggiungere un consenso universale, almeno all’inizio.
Tra lui, Ford, Giannini e altre icone che hanno reso Gucci ciò che è oggi, le aspettative per chiunque avrebbe preso in mano il prossimo capitolo del brand erano altissime.
Forse alla ricerca della conferma definitiva che la moda davvero è nella sua fase più sobria dopo quasi un decennio di logo mania, sneakers, sportswear e look decisamente camp, abbiamo creduto che solo Gucci potesse dare una risposta definitiva.
Come promesso, Sabato De Sarno, napoletano classe 1983, ha aperto con un cappotto che già dice chiaramente di si: quiet luxury, minimalismo e sopratutto italianità.
In lana grigia, semplice e pulito come tanti, però è “il mio cappotto”, aveva detto in un’intervista esclusiva a Vogue Italia all’alba del debutto.
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È una scelta simbolica che rappresenta tutta la collezione: capi classici per un guardaroba senza tempo. It’s giving Miuccia Prada, ma anche dolce vita italiana, periodo d’oro della moda anni 90, e la nostalgia di qualcosa che ricorda tutto e niente.
È proprio qui che la critica si sofferma: dov’è la sostanza? Dov’è il sogno che speriamo di vedere in passerella, la promessa di essere invincibili, l’abbigliamento per una versione potenziata, anche eterea e forse ridicola nel modo più bello possibile, di noi stessi?
Ad alcuni ha annoiato. Ad altri ha ricordato troppo Miuccia Prada o Pierpaolo Piccioli. Per i più severi, Gucci Ancora è stato un mix di anonimato e ahimè, anche la tanto temuta banalità.
Deprivato di provocazione, concetto e narrativa, Gucci Ancora è invece stata una boccata d’aria fresca per chi non si rivedeva più nella moda barocca e hype-focused degli ultimi anni.
La sobrietà potrebbe non essere una condanna, dopotutto. In particolare per Kering, a cui De Sarno si allinea senza se e senza ma, facendo un occhiolino rassicurante dopo il declino degli ultimi anni. Ora ci pensa lui, dice a Pinault presente in prima fila.
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Rinfrescante anche vedere volti nuovi in passerella, con modelle come Kendall Jenner sedute in prima fila e non sulla catwalk.
Parlando dei look: tanti mini dress, che aveva detto De Sarno hanno tutti un mini pantaloncino cucito per dare sicurezza.
Resta il logo e lo sportswear, ma solo in versione monocolore, sia sulla felpa grigia con scritta grigia, sia nel completo co-ordinato monogram.
Poi blazer e giacche di pelle, che insieme al cappotto propongono silhouette che richiamano il passato da Prada e Valentino di De Sarno.
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La Jackie torna in versione lucida e morbida, ma anche più scintillante. I mocassini in versione platform e tanti tacchi bassi a punta, per accompagnare dalla mattina alla sera.
Un guardaroba senza tempo che piace anche a chi sceglie solo investment pieces.
Per Gucci, si riparte dall’inizio.
Foto Gucci website