Viaggio attraverso il mondo della regia con brevi considerazioni e qualche aneddoto in ordine sparso, più qualche consiglio (non richiesto) per i più giovani.
“Anche una scimmia impara a fare il regista in due giorni”. Battuta tratta dal film “Argo” che la dice lunga sul declino di una figura d’artista, a dir poco venerata per quasi tutto il Novecento.
Soprattutto in Televisione il regista è ormai una sorta di tecnico, privo di qualsiasi spazio di inventiva, necessario solo come “bidone della spazzatura” nel quale si riversano tutti i problemi produttivi, autoriali e caratteriali; non ultima, la responsabilità legale della messa in onda. Oggi anche un fuoriclasse come Antonello Falqui avrebbe dei problemi nel confrontarsi con dirigenti di imbarazzante incompetenza, conduttori dotati di carattere altalenante, autori che nella maggior parte dei casi non sanno cosa sia una scaletta.
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Il Regista/Autore e qui torniamo al cinema è una figura prevalentemente solitaria che al contrario di uno scrittore o di un pittore oppure di un compositore, ha bisogno di confrontarsi con decine di persone per vedere completata la sua Opera. Un ossimoro!
La gestazione e completamento di un film ha un percorso composto da tre passaggi: il primo è l’ideazione e la scrittura della sceneggiatura, che mediamente varia da uno a tre mesi. Il secondo è il più complicato, soprattutto se la sceneggiatura non è su commissione; la ricerca dei soldi e quindi di un produttore, specie per un esordiente, può durare anni, nella migliore delle ipotesi almeno un paio. La terza riguarda la realizzazione del film, fatta di riprese che mediamente si svolgono in quattro/cinque settimane e l’edizione, montaggio, doppiaggio, ecc. che possono partire quasi in parallelo alle riprese, riducendo a circa tre settimane la lavorazione finale. Dopo inizia la promozione e subentrano gli uffici stampa.
Durante le riprese un regista si confronta in continuazione con attori, personale tecnico, primo fra tutti il direttore della fotografia e a seguire operatori, elettricisti, macchinisti, trucco e parrucco, scenografici e arredatori, fonici, montatori e tante altre figure professionali; spesso sono l’aiuto regista e gli assistenti a fare da filtro ma è indubbio che ogni giorno di riprese e montaggio un regista è subissato da continue domande e svariate richieste, alle quali deve una risposta soddisfacente. Ne va della psiche della troupe e del cast.
Alla fine tra continue mediazioni con produttore, attori e svariato personale l’Autore perde parte della proprietà della sua opera, essendo diventata un lavoro collettivo. E qualcuno continua a considerare il Cinema una forma d’Arte, per l’immaginario continua ad essere “Un’Emozione”.
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In realtà il Cinema è un’Industria, magari anomala ma pur sempre un’industria che come scopo principale ha quello di “fare soldi”, come è giusto che sia visto che quantifica un indotto di migliaia di lavoratori. L’Arte è tutt’altra cosa! Se si pensa a Van Gogh che non ha mai venduto un quadro in vita sua, si comprende meglio.
E’ fuor di dubbio che da un’industria possano uscire dei capolavori, paragonabili a delle vere Opere d’Arte, basti pensare a un “Porsche Targa4” (rigorosamente declinato al maschile) o ad un Amarone Riserva 2015, tanto per spaziare tra il manifatturiero e l’enologico. Così il Cinema produce capolavori come “La Dolce Vita” o “Blade Runner”; ma la maggior parte dei prodotti forniti dall’Industria, in genere, sono di fattura medio-bassa.
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C’era un grande regista che ammoniva i suoi assistenti: “Ma voi siete ricchi di famiglia? Perché se non siete ricchi questo mestiere non potete farlo.” Il suo non solo era un indirizzo che invitava a non considerare la regia come un ascensore sociale, se non fortemente dotati di una grande passione ma anche per selezionare, in maniera molto snob e un “filino” razzista, quelli abituati ad un certo agio e conseguentemente al gusto del bello. Luigi Squarzina, raffinato regista teatrale, allestì un “Cardinale Lambertini” per il Teatro Stabile di Roma, primi anni 80, pretendendo in scenografia tutti arredi autentici dell’epoca: tovaglie e drappi in broccato di seta, posate d’oro, bicchieri di cristallo e via dicendo, portando i costi dell’allestimento alle stelle. Le motivazioni erano che il fruscio della seta era diverso da quello del nylon, così come un brindisi di cristallo non ha paragoni con quello del vetro: bisognava educare il pubblico al bello anche attraverso l’udito.
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Vogliamo parlare del suono di un accendino Dupont quando si chiude? Il lusso, quando non è spreco bensì una scelta, favorisce la vena artistica se questa è intesa come rappresentazione del “Bello”.
Ma c’è poesia ovunque come ci insegna la “Street Art”.
Continua.
Credit Images: Nicolette Leonie Villavicencio on Pexels