Sperimentare la mascolinità e metterla in scena, per abbattere gli stereotipi di genere
I drag king fanno fatica a emergere nel mondo dell’intrattenimento; vuoi perché in ombra rispetto al più consolidato mondo delle sorelle drag queen, vuoi perché sono un fenomeno più recente e poco sponsorizzato. Limitare il drag kinging a mero spettacolo, sarebbe riduttivo: si tratta invece di un’indagine, una riflessione sui ruoli di genere, che mette in discussione la disuguaglianza di genere. Il Kollettivo Drag King di Milano ha deciso di esplorare questi aspetti nella forma del teatro: ne abbiamo parlato con Roberta e Cristina, due delle voci del Kollettivo.
Come definireste il drag kinging?
Un drag king è una persona di qualsiasi sesso o genere che fa della mascolinità una performance. Noi del Kollettivo mettiamo in scena il ruolo di genere maschile: è un modo per indagare l’identità e le differenze tra ruoli maschili e femminili, perché non puoi vestirti da uomo e non porti delle domande sulla tua identità.
In Italia da quanto tempo se ne parla?
Prima del 2000 i Drag Kings non si conoscevano affatto, e ancora oggi questo tipo di performance non è molto diffuso, almeno non quanto quello delle drag queen.
Perché proprio il teatro come strumento d’indagine dei generi?
Il teatro è un ottimo strumento per studiare i ruoli sociali di genere perché usa il corpo come strumento principale. Infatti, la trasmissione della cultura passa attraverso il corpo: gesti, sguardi, movimenti, voce. Corpo e mente sono in stretto collegamento, per questo ciò che si apprende attraverso il corpo si riflette sui nostri pensieri: ci siamo accorte di come percepivamo il femminile quando abbiamo fatto esperienza del maschile.
Stereotipi di genere
Parliamo del vostro Kollettivo: quando nasce e da che esigenza e quali sono stati i primi passi ha mosso.
È nato nel 2011, all’interno del Teatro Ringhiera di Milano; una sorta di risposta alle Nina’s Drag Queen, nate sempre al Ringhiera ma nel 2007. Nasce come laboratorio teatrale di indagine introspettiva, ma l’intento era soprattutto politico, come denuncia della disuguaglianza e del privilegio maschile. Oggi siamo sempre un gruppo teatrale, un unicum in Italia: in Europa da quello che sappiamo ne esiste solo uno in Norvegia.
Come si svolge un workshop drag king?
Come già accennato prima, lavoriamo molto sull’indagine introspettiva, attraverso la quale si esplorano i propri vissuti col maschile (trovando a volte delle somiglianze con padri, fratelli, compagni), o meglio con i maschili. Perché, come del femminile, si parla al plurale: non esiste un solo tipo di femminile; i modelli sociali e culturali vengono percepiti e interpretati in maniera soggettiva, le esperienze personali creano un’idea soggettiva di genere.
Nel loro lavoro c’è poi anche un’attenzione al lato più estetico, ovvero l’utilizzo di costumi, barbe e acconciature. Rispetto alle generazioni più giovani di drag kings, i loro tratti della maschilità sono più accentuati dal punto di vista del corpo, mentre i drag kings nati di recente stanno mettendo in scena performance più queer, più fluide.
Quanto sono importanti queste due componenti e in che misura quando si crea il proprio king?
Dipende dal fine: se l’obiettivo è fare uno spettacolo teatrale tratto da un’opera letteraria come per esempio è stato per l’Odissea, si fa molta attenzione all’aspetto estetico del personaggio che si va ad interpretare. Senza cadere troppo nell’imitazione certo, però ci si attiene ai suoi tratti: se devo fare Efesto, il dio del fuoco e della metallurgia, sarò zoppo, muscoloso, vendicativo, e come tale mi comporterò. Se invece si fa un lavoro su di sé, si va a indagare a fondo il carattere del proprio king, del proprio tipo di uomo, quello che saremmo noi in versione maschile.
Come sono i vostri king?
Cristina: Vasco, il mio king, è ispirato al cantante, però è un Vasco tutto mio: piacione e abbastanza truzzo. Da che esiste Vasco nella mia vita, è come se la sua componente di adulatore mi aiutasse a vedermi più donna, ad apprezzarmi.
Roberta: invece Max, il mio king, è un allenatore, un motivatore nato: mi sono ispirata ad Al Pacino de Ogni maledetta domenica, dove appunto interpreta un allenatore di football. Nella vita di tutti i giorni sono però più una persona che ascolta, più introspettiva, una che quando cammina e incrocia un’altra persona, soprattutto un uomo, abbassa lo sguardo; magari si scansa e “lascia il passo”. Da quando esiste il mio king, è come se avessi compreso certi meccanismi: ora non abbasso più lo sguardo e non mi scanso più se non ce n’è motivo, essendomi messa dall’altra parte durante i laboratori king. Max non abbassava lo sguardo quando gli veniva chiesto di camminare normalmente: mi sono accorta di quei comportamenti.
Quindi c’è anche una componente di stereotipizzazione del maschio nel vostro lavoro.
Ben venga che ci sia! Se la gente riconosce uno stereotipo, vuol dire che è consapevole della sua esistenza e magari inizia a pensare a un cambiamento. I king spesso sono caricature del truzzo, del bauscia, del dandy: tutta la variabilità maschile è rappresentata, ma sempre con ironia. Non deve però cadere nell’irreale, e ciò vuol dire anche curare alcuni aspetti performativi: il rischio altrimenti è di non essere credibili, di diventare una donna che gioca a fare l’uomo; il lavoro di messa in scena invece è molto accurato.
Come vi siete sentite la prima volta nei panni dei vostri king?
Roberta: ho iniziato subito a divertirmi. Però solo dopo diversi laboratori ho capito che tipo di donna volevo essere e che ciò che la società impone di essere, è frutto solo di costruzioni culturali, da cui ci si può anche discostare per essere maggiormente se stesse.
Cristina: era tanto che mi domandavo “come sarei se fossi un maschio?”. Quando mi sono vista allo specchio, ho rivisto il volto di mio padre: è stato qualcosa di molto forte.
Quali sono le difficoltà del kinging in e fuori scena?
Cristina: sembrerà banale ma in scena, se con noi ci sono delle queen, facciamo fatica a riempire il palco: essere 160 cm con di fianco qualcuno che sui tacchi sfiora i due metri non aiuta. È un problema scenico! Scesa dal palco, nella vita di tutti i giorni, non ne parlo molto, solo con chi ho confidenza: sono un’insegnante, e oggi anche solo accennare una cosa del genere, con genitori e colleghi bacchettoni, è difficile.
Roberta: conosco lo sguardo della società sulle persone, per questo ci ho messo un po’ prima di dirlo nel mio ambiente di lavoro, anche se poi mi sono decisa a farlo. Non faccio l’insegnante però, sennò anche io avrei avuto molte più difficoltà a parlarne.
Notate differenze tra un pubblico prettamente maschile e uno femminile?
Con il pubblico non abbiamo mai avuto problemi: a Milano spesso appartiene alla comunità LGBTQ+; in provincia siamo rimaste piacevolmente colpite per il calore dei bambini e dei più anziani: l’ironia ci ha sicuramente aiutato. Riguardo alla differenza di genere di pubblico, abbiamo sempre trovato uomini che hanno capito, che però, forse per timore di aprire una difficile discussione, facevano fatica a fare domande.
C’è una sorta di ostracismo da parte delle drag queen e all’interno della comunità LGBTQ+?
In Arcigay c’è curiosità e pieno supporto per i drag king, soprattutto da parte delle drag queen.
Eppure il mondo dello spettacolo sembra aver dato loro maggior spazio rispetto a voi.
Forse anche noi come Kollettivo drag king dobbiamo sponsorizzarci meglio: i locali non ci chiamano perché non sanno della nostra esistenza. Non crediamo sia un ostacolare volontario: lentamente, spinti dalla curiosità, ci stanno chiamando per degli eventi.
Cosa vedete nel futuro del drag kinging? Come vedete evolversi questa scena?
Vuoi la risposta ottimistica o pragmatica?
Il bello del web è non avere limiti di spazio.
Ottimisticamente speriamo si espanda: i locali ci chiamano; i nuovi king stanno sperimentando nuove forme di spettacolo, all’americana, con performance più scenografiche. La gente si diverte.
E quella pragmatica?
Se si guarda agli Stati Uniti, dove il drag kinging è nato, e che spesso anticipano gli avvenimenti nostrani, ha avuto successo per i primi anni ma poi è declinato: molti gruppi si sono sciolti, e oggi è un fenomeno ancora non molto visibile, almeno non come le drag queen. Ed è un peccato: è un’esperienza istruttiva che aiuta a comprendere sia se stessi sia che come le norme di genere possono agire nelle relazioni tra noi e gli altri.