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Di cosa parliamo quando parliamo di carne coltivata

Tempo di lettura: 3 min.

Pro e contro di una tecnologia che fa discutere

Carne sintetica o carne coltivata? Pericolo per la produzione locale o buona notizia per ambiente e consumatori? Il dibattito su questo nuovo tipo di carne ha toccato il suo picco all’inizio di dicembre 2023 quando il parlamento italiano ne ha vietato la produzione e la commercializzazione nel nostro paese. Una mossa che ha suscitato molto clamore e tanti dubbi. Secondo il Good food institute Europe, il confronto sul tema in Italia “è stato influenzato dalla disinformazione”. 

Proviamo a capire qualcosa in più sulla carne coltivata e le sue implicazioni insieme a chi in Italia si occupa di questa materia con un approccio unico.

Il Feat di Torino

Luca Lo Sapio, professore di filosofia morale, dirige il Feat (FeaturEATing), un gruppo internazionale di ricerca multidisciplinare sul cibo del futuro nato in seno all’Università di Torino. Con lui lavorano anche una semiotica, un altro filosofo morale, una docente di psicometria e uno di biologia molecolare, oltre a storici della scienza, una psicologa sociale, una chimica degli alimenti e una studiosa di economia e statistica “per fornire una maggiore consapevolezza ai cittadini e contrastare l’approccio unilaterale e a volte fuorviante che si è imposto in Italia”.

Carne coltivata, non sintetica

Da un punto di vista tecnico, spiegano i ricercatori sul sito del progetto di ricerca, la carne coltivata si ottiene con un processo analogo a quello con cui si prende il germoglio di una pianta e lo si fa crescere in una serra. Il germoglio sono però cellule staminali che, dopo essere state prelevate da animali da allevamento, vengono successivamente “fermentate” e moltiplicate in laboratorio. Niente di sintetico, quindi, come suggeriscono invece i detrattori e buona parte della politica nostrana.

 
 
 
 
 
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Un grande equivoco 

Secondo Lo Sapio, quando si discute di carne coltivata non si dice poi con chiarezza che è una possibile risposta ai problemi sollevati dagli allevamenti intensivi “responsabili di depauperamento di risorse idriche e del territorio e di emissioni in atmosfera di gas a effetto serra”. La ricerca sulla carne coltivata, in seguito alla denuncia di Coldiretti, ha invece portato alla mobilitazione di molti piccoli allevatori che temono per il proprio mercato. Un grande equivoco, secondo il professore. 

Nessuna panacea

Lo Sapio ci tiene però a ricordare che non stiamo parlando di una soluzione definitiva, una panacea per tutti i mali della produzione alimentare animale, ma di una tecnologia che ha delle potenzialità ma possiede ancora problemi dal punto di vista tecnico. “Non sappiamo come si svilupperà, ma se blocchiamo i finanziamenti ci precludiamo la possibilità di introdurre una tecnologia dai risvolti eventualmente benefici per l’umanità”. 

 
 
 
 
 
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Fanno inoltre notare gli esperti la possibilità che la ricerca in questo campo porti a progressi in altri ambiti, come la medicina rigenerativa che potrebbe servirsi di tessuti coltivati a costi accessibili. 

Una questione etica 

C’è poi una questione morale importante che secondo Feat bisogna prendere in considerazione quando si parla di cibo del futuro perché “scegliere cosa comprare e cosa consumare significa appoggiare un certo modello di produzione e i valori che lo supportano”. Produrre e mangiare carne coltivata potrebbe in questo senso essere una scelta etica non solo per chi è già vegetariano, ma anche per chi la carne, con delle riserve sull’impatto della produzione intensiva su ambiente, salute e vita degli animali, continua a mangiarla.

Perché no

Non sarebbe poi nemmeno vero, come si è cercato di far passare negli scorsi mesi, che gli italiani siano contrari a priori alla carne coltivata. Dai dati raccolti dal Feat emerge invece che, a fronte di una certa resistenza delle fasce di età più avanzate, i giovani sarebbero in maggioranza disposti almeno a provare questo tipo di carne. “Dire che ci sono già le condizioni per la diffusione di un nuovo stile alimentare è un altro discorso”, precisa Lo Sapio.

In ogni caso anche il sushi arrivò in Italia alla fine degli anni Ottanta, dopo una forte resistenza iniziale. Ora basta guardarsi intorno.

 

 

Illustrazione di Acrimònia Studios

1920 1080 Tommaso Meo
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