Alla luce delle ultime tragiche notizie provenienti da Israele abbiamo parlato con un reporter per capire come si vive in mezzo alle bombe
Mattia Sorbi è un reporter di guerra freelance di 44 anni che collabora con Repubblica, Radio 24 e Rai Uno. Nel 2021 è stato ferito in Ucraina.
Nonostante l’incidente, nei prossimi giorni partirà di nuovo, alla volta di Israele. Ci racconta che voler tornare in campo è normale. Risponde alla videochiamata mentre è intento a recarsi in polizia per un ultimo check dei documenti prima di partire per Tel Aviv.
Continuiamo la conversazione in collegamento telefonico tra la redazione di Acrimònia e i rumorosi mezzi di trasporto milanesi.
Mattia, raccontaci quando sei stato ferito.
Ero in Ucraina per svolgere il mio lavoro. Mi spostavo spesso alla ricerca di testimonianze. Mi trovavo in macchina e mi stavo muovendo. Il mio autista si era interfacciato con un soldato ucraino, che aveva confermato la totale sicurezza della strada che volevamo percorrere e, che ci ha lasciato passare. Purtroppo la strada non era sicura e i russi ci hanno sparato.
Sparato?
Pensavo di essere passato sopra una mina, in realtà i soldati di Putin ci hanno proprio attaccato. Non avevano capito che fossi un giornalista e hanno fatto fuoco. Per il mio autista non c’è stata speranza, io mi sono salvato.
Deve essere stato terribile.
In questi casi si analizza quanto accaduto. Quello che mi è successo è un crimine di guerra. C’è una commissione internazionale che si sta occupando del mio caso e di casi similari. Inoltre avrei gradito da parte dell’esercito ucraino una presa d’atto della responsabilità del loro soldato al check point.
A livello tecnico è proprio questo il punto. Non è una colpa che sto cercando di scaricargli. Il soldato al check point avrebbe dovuto avere la certezza che i russi non sarebbero stati sulla strada che avremmo percorso.
Perché sei diventato reporter di guerra?
Da adolescente lo sognavo, ma non pensavo di arrivarci, poi casualmente la vita mi ha messo davanti la possibilità di farlo.
Spiegati meglio.
Ho studiato Scienze Politiche in Cattolica, ero appassionato della fotografia di Robert Capa. Come vedi ti sto parlando di interesse verso “un’estetica di guerra”, non della consapevolezza di poter intervenire in un teatro di guerra.
Nasco come esperto di relazioni internazionali, il giornalismo viene dopo.
Quando?
Quando ho fatto un’esperienza negli USA come corrispondente per Panorama.
Come sei finito sui campi di battaglia?
È cominciato tutto con una telefonata nel 2014. Avevo 35 anni e ho iniziato a collaborare con Radio24. Ho preso consapevolezza che la mia carriera sarebbe cambiata andando nel Donbass.
E cosa hai fatto?
In quel momento ero appena tornato da Buenos Aires dove mi occupavo di politica sudamericana. Ho mollato subito tutto e sono partito per il Donbass.
All’epoca si parlava poco dell’Ucraina.
Vero, ma il conflitto esisteva. Sono andato a Donetsk, dopo le manifestazioni di Euromaidan, proprio nel momento in cui i russi entravano in città.
Come si passa da una metropoli ad un teatro di guerra?
Sono stato aiutato da una collega più esperta. Carlotta Gall del New York Times mi ha dato qualche dritta e abbiamo fatto il viaggio insieme verso Donetsk.
Qual è il rapporto tra i giornalisti di guerra?
C’è competizione. Anche io sono competitivo, tuttavia esiste una rivalità sana volta alla qualità del racconto.
Poi cosa hai fatto?
Arrivato a Donetsk, mi sono ritrovato nel mezzo della battaglia di Ilovajs’k, che è stata molto cruenta. C’erano maschere anti gas dappertutto. Quello è stato il mio battesimo.
Cosa ti preoccupava di più?
Uno dei miei primi pensieri è stato di carattere pratico: “Dove trovo elmetto e giubbotto antiproiettile?”.
Non hai mai avuto paura?
Certo che ho avuto paura. Continuo ad avere paura.
Ti ritieni un uomo coraggioso?
Il mio coraggio è mosso dalla passione. Mi spinge oltre alla paura.
Cosa serve per diventare un reporter di guerra?
La velleità. Essere sul campo e allo stesso tempo artefici del racconto di un conflitto internazionale ti fa sentire al centro della storia.
Parliamo di Kabul.
Nel 2021 la mia carriera come reporter di guerra ha preso il volo. Ho raccontato quello che è succedeva nel mese di agosto, quando gli americani avevano ritirato le truppe dall’Afghanistan e i Talebani ne avevano ripreso possesso. Sono stato il terzo giornalista europeo ad entrare a Kabul.
Raccontami una giornata tipo in guerra.
Ci sono comuni denominatori tra le guerre a cui ho partecipato. Primo tra tutti l’orario in cui suona la sveglia che è intorno alle 6:00. Sempre che non bombardino, in quel caso ci si alza alle 5:00.
“Sempre che non bombardino” fa venire i brividi.
Quando bombardano e mi sveglio sono più produttivo. E qui, guerra o non guerra, viene fuori il milanese che è in me.
Quindi che si fa dopo essersi svegliati?
Durante il giorno si scrive o si va in diretta, dipende se si lavora per la carta stampata o per la televisione.
La giornata dura poco nelle zone in conflitto essendoci il coprifuoco. Quando si rientra, si sfrutta il resto del tempo per organizzare la giornata successiva.
Qual è il servizio di cui vai più orgoglioso?
La mia intervista a Zabiullah Mujahid, il portavoce dei talebani. Ho parlato con lui di politica estera e di relazioni internazionali. È stato un momento importantissimo.
Come hai fatto a contattarlo?
È una figura istituzionale. I talebani, avevano grande rispetto per i giornalisti occidentali.
Zabiullah Mujahid non rilasciava molte interviste ma sono riuscito ad ottenerla.
Quindi non basta “esserci” per raccontare la storia.
Le fotografie sono importantissime. Rendono vivo il racconto. Altra cosa fondamentale è il tempo. Bisogna rientrare nei primi 3 reporter al mondo ad aver raccontato un avvenimento per fare la differenza. Non bisogna farsi scappare nessuna opportunità.
Sei in partenza per Israele. Quando tornerai?
Bella domanda! Ho la possibilità di star via per tempi lunghissimi e prevedo di tornare in Italia per Natale.
Il conflitto tra israeliani e palestinesi durerà parecchio e sarà drammatico. Vorrei parlare di questa guerra prendendomi tutto il tempo necessario.
Bisogna stare lontani per così tanto tempo?
Non è necessario, anzi. Bisogna capire davvero i conflitti e farli propri per poterne parlare, o nel mio caso, scrivere.
Vai da solo in Israele?
Sì, nonostate tutto, Tel Aviv è un luogo ancora non pericolosissimo.
Hai già un piano d’azione?
Assolutamente sì, ci sto già lavorando. Ho dei contatti con cui sto cominciando a collaborare, in particolare per delle riprese.
Nei mesi a venire cercherò di entrare in contatto anche con i palestinesi.
Quanta libertà d’espressione ha un giornalista in guerra?
Non possiamo illuderci che la stampa occidentale possa fare grandi critiche al mondo cui appartiene ma, siamo fortunati perché partiamo da un punto di vista liberale e nel totale rispetto dei diritti umani.
Ogni giornalista è libero di raccontare quello che pensa sia giusto.
Perché a volte si pensa non lo sia?
Nessuno mi ha mai censurato, ma a volte mi sono dovuto auto censurare.
Perché?
Per evitare di fare delle analisi teoriche del conflitto. Il mio compito è raccontare quello che succede e non fare geopolitica.
Prima o poi dovresti scrivere un libro.
Bolle qualcosa in pentola. Avrei dovuto raccontare il mio lavoro in Ucraina ad alcuni festival. Purtroppo sto partendo. Aggiungerò l’esperienza del conflitto israeliano palestinee al libro che scriverò.
Foto di Mattia Sorbi