Dopo la Casa di Carta, ma prima della Casa di Carta, arriva Berlino, ambientato a Parigi. Pedro Alonso e Tristán Ulloa reggono alla grande gli 8 episodi del prequel, anche se…
Passeggiando nella metropolitana di Madrid, prima della consueta sosta alla Cafeteria Buenos Aires, sono rimasto molto incuriosito dai grandi cartelli con la faccia di Pedro Alonso con la Torre Eiffel sullo sfondo, anche perché mi ero perso l’annuncio di questo autentico evento televisivo. Era quindi d’obbligo recuperare il tempo perduto e divorare tutte di fila le 8 puntate dello spin off francese della Casa di Carta.
Evitando accuratamente di spoilerare, vediamo di capire quanto dell’atmosfera e dell’efficacia de La Casa de Papel è stato trasportato nella capitale tedesca e con quanta efficienza l’operazione sia stata portata a termine. Naturalmente si tratta di opinioni e impressioni personali, più o meno condivisibili a seconda dei gusti e delle sensibilità di ogni spettatore e cinefilo.
Tra gli aspetti positivi di Berlino c’è sicuramente Berlino stesso, inteso come il protagonista, che insieme a Damian tira i fili degli altri personaggi per 8 puntate, senza eccessi e sbavature. Al fascino irruento e un po’ pazzoide di Pedro Alonso si affianca e si contrappone la riflessiva saggezza, spesso peraltro vacillante, di Tristán Ulloa, con un abbinamento che trova nella loro “esibizione” al matrimonio il suo apice.
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Un + spetta anche al resto del cast, Cameron, Fernandes, Keila, Camille, Roi e Bruce, che animano una compagine criminale con forti venature umane ed esistenze segnate dalla vita e dagli errori precedenti. Nella caratterizzazione dei personaggi forse poteva esserci uno sforzo maggiore, anche evitando un eccesso di mistero che poi svanisce in modo prevedibile e forse anche deludente. E l’intensità inespressa fino alla fine delle tensioni attrattive tra alcuni dei componenti della banda forse sulla lunga risulta un po’ artificiale.
Piacevole inoltre l’ambientazione che, a parte interni e sotterranei, mostra qualche scorcio di Parigi che contribuisce a dare carattere e intensità ad ogni tipo di pellicola. Forse la città poteva essere valorizzata di più, seppure come sfondo, sforzandosi di cercare qualche spunto in zone meno note ma pur sempre efficaci anche cinematograficamente.
Dopo la scelta della canzone Bella Ciao per la Casa, per il prequel si è puntato su qualcosa di meno impegnativo, scomodando niente di meno che Albano Carrisi. Messa così potrebbe sembrare una delle scelte meno efficaci nella costruzione complessiva della serie, ma l’esibizione finale di Berlino e Damian rende giustizia alla decisione e spiega anche il simpatico quanto insolito incontro tra Pedro e Albano.
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Tra gli aspetti meno convincenti ci sono alcuni personaggi che, pur interpretando discretamente il ruolo per loro ritagliato non sembrano decollare appieno, fornendo alla riuscita della serie un contributo marginale e inferiore a quelle che sono le aspettative iniziali.
Ma il problema più grande di Berlino, che rischia davvero di far diventare il prequel de La Casa di Carta un Castello di Carte, è l’eccesso dell’effetto McGiver e l’eccessiva somiglianza con le dinamiche narrative della serie madre. Nel senso, quando McGiver (personaggio del secolo scorso che risolveva ogni tipo di situazione con improbabili utensili rimediati) accendeva un’automobile con una graffetta, si poteva ancora accettare. Ma quando abbatteva un bombardiere nucleare con un elastico per capelli qualche dubbio ti veniva. Allo stesso modo, bene che i personaggi parigini di Berlino sappiano fare molto e affrontare ogni situazione, se si calca troppo la mano si rischia di sconfinare nel prequel degli X man.
Se è vero che non ci si poteva aspettare una recisione netta e assoluta dal cordone ombelicale con La Casa de Papel, uno sforzo maggiore di autonomia e di sviluppo della trama avrebbe reso Berlino l’evento televisivo che immaginavo mentre facevo colazione alla Cafeteria Buenos Aires.
Illustrazione di Gloria Dozio – Acrimònia Studios
Foto di Marco Squadroni