Dalla negazione alla negoziazione
Siamo abituati a “correre” dalla società odierna, a non fermarci mai, a seguire un ritmo così frenetico da entrare in un moto di costante confusione (a volte creativa, dai) e spesso avremmo solo bisogno di fermarci per capire cosa ci succede. E non lo facciamo mai, o perlomeno non quanto dovremmo. Adesso invece siamo fermi, corpi bloccati e menti in cortocircuito, siamo rimasti al buio. Tutta l’Italia è ferma, contenuta, impaurita.
Troppe le notizie tragiche che leggiamo ormai tutti i giorni, che appesantiscono il clima quotidiano spingendoci a dover riflettere su cosa sta succedendo, al contempo, nelle nostre menti, nell’anima e nel nostro corpo. Che insieme sono poi le componenti che creano l’individuo stesso. È la prima volta che nella storia della Repubblica Italiana viene adottata una misura di tale portata, che ha e avrà grosse conseguenze non solo sull’economia della società, ma anche sulla vita sociale dei cittadini. Il protagonista di questo caos che prolifera in Italia, come anche sul web, è ormai dalla fine di febbraio il SARS-CoV_2 anche detto Covid-19, per tutti: coronavirus. Il nuovo ceppo di coronavirus che è piovuto sul mondo dalla Cina, non è stato mai identificato nell’uomo prima d’ora. Mai, prima di essere segnalato a Wuhan, Cina, a dicembre 2019 (www.salute.gov.it). Tutti eravamo impreparati.
“Psicologicamente la situazione non è facile e le fasi della metabolizzazione di una novità, come l’epidemia – che comporta una ‘sospensione della normalità’ – sono diverse”. Esordisce così Armando Toscano, psicologo sociale esperto di dinamiche di comunità e di integrazione e manager nel terzo settore, di cui sembrano importanti le parole. La metabolizzazione della novità ha quindi – dal punto di vista psicologico – alcune fasi specifiche, illustrate anche in un articolo di Linkiesta a firma Irene Donnini.
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Dal vocabolario di psicanalisi la negazione è “un meccanismo di difesa che si innesca quando qualcosa crea dei sentimenti negativi troppo intensi”. Quando, insomma, non ci si riesce a capacitare di quanto viene comunicato – dalla gravità del virus all’assoluto bisogno di rimanere a casa. La negazione, scrive Donnini, “porta a pensare che la situazione in cui ci si trova sia ‘gonfiata’ rispetto alla realtà, e che in fondo non ci sia niente di male a uscire per fare un po’ di jogging”. E se da un lato, “le persone faticano a realizzare di dover cambiare il proprio stile di vita, perché per natura contrarie a tutto ciò che mina la loro autostima – spiega Toscano a Linkiesta – Dall’altro, la società del benessere in cui viviamo, aggiunge un livello di complessità, perché siamo abituati ad un certo livello di agio e di garanzie, di diritti” e via discorrendo. “Rinunciarci, dunque, suona come una privazione inaccettabile”. Dopo la negazione ci aspetta la rabbia, perché “l’imposizione di una restrizione non voluta, come il contatto prolungato tra le mura di casa, con figli iperattivi o coniugi in ansia, può far sorgere dell’aggressività in noi”. E una volta sperimentata la rabbia è il turno della negoziazione: “si cerca di scendere a patti, si dice ‘Ah, se si fosse fatto in questo o quel modo’, ci si immagina così, tutti i possibili scenari alternativi”. Segue poi la fase della depressione – che, attenzione, “non è un termine negativo”, spiega l’esperto, evoca, piuttosto, la fase in cui si ‘allentano le pressioni’. In altre parole, con la fase di depressione “ci si ‘rassegna’ al fatto che bisognerà portare pazienza, osservare le norme igieniche e di comportamento, e aspettare che il periodo di quarantena passi”. Per l’ultima fase, che è quella dell’accettazione: “il momento in cui si inizierà a convivere in maniera serena e costruttiva con le nuove condizioni”.
Alcuni italiani in fila al supermercato addirittura affermano: “C’è un clima quasi surrealista. Ci viene chiesto un così radicale cambiamento dove paradossalmente ci viene imposto di non fare più nulla, e di restare a casa, dopo tutti quei ritmi frenetici con cui siamo stati cresciuti dalla società”. Il problema oggettivo del Coronavirus, diventa un problema soggettivo in relazione al vissuto psicologico, alle emozioni e alle paure che il tema suscita nelle diverse persone, il tutto in base alla loro esperienza unica come individui. La paura, ad esempio – secondo quanto riporta il Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi – è fondamentale per la nostra sopravvivenza e per la percezione dei rischi che ci circondano; ma c’è anche il grande rischio che ti possa ghiacciare, rendere inerme o poco ragionevole. La ‘percezione del rischio’ può essere distorta e amplificata, sino a portare a condizioni di panico che non sono sempre e solo ingiustificate, ma aumentano il rischio di comportamenti irrazionali e di un abbassamento delle difese biologiche dell’organismo.
Le evidenze scientifiche, poi, portano ad ipotizzare che sotto quarantena si rafforzino diversi stressor, stimoli esterni che sono fonte di stress. E quelli più diffusi sono: la durata del ‘lockdown’, la paura di essersi contagiati, e anche quella di poter contagiare gli altri, in particolare i familiari. E ancora si legge su Agi: noia, frustrazione e l’essere privi di beni necessari, non solo alimentari o per la salute, ma anche immateriali, come quelli legati all’informazione. Come un filo rosso che ci lega c’è dunque l’angoscia, “la pauradi poter restare chiuso in casa, senza alimenti e di morire di fame è il timore più ancestrale dell’essere umano, che si è evoluto proprio intorno alla ricerca di cibo e lo accumula, da sempre, in previsione di momenti nei quali il cibo potrebbe non esserci”, scrive Gabriele Sani, professore di psichiatria all’Università Cattolica del Sacro Cuore e psichiatra del Gemelli, facendo riferimento alla corsa ai supermercati, ai treni o ai tabaccai, scatenatasi alcuni giorni fa.
E accanto alla paura c’è la percezione di un distanziamento sociale, imposto. “Uno degli aspetti più destrutturanti in questo momento – continua Sani – è la lontananza fisica. Non ci si tocca, non ci si saluta, niente baci o abbracci. È qualcosa di molto strano per i latini in generale e per gli italiani in particolare: Per noi il contatto fisico è parte integrante della vita quotidiana”. “Questa condizione che stiamo affrontando, fa emergere anche il fatto che l’uomo sia, non dimentichiamolo, un animale sociale. Emergono ora delle decisioni non più individuali, ma collettive”, scrive Luca Andrighetto, professore di psicologia sociale all’università di Genova. Dopo diversi decenni, infatti, la nostra libertà individuale passa in secondo piano. Come una medaglia a doppio volto, però, gli fa eco Siani che riflette: “C’è anche un altro aspetto fondamentale, caratteristico dell’uomo, che è la resilienza: la capacità di adattamento e di risposta alle situazioni critiche”. Ecco perchè ce la faremo.
Un altro dei validi strumenti per fronteggiare come corpo sociale la situazione in cui ci troviamo “è capire che siamo tutti colpiti dalla pandemia. La percezione di una minaccia esterna, come la pandemia di Covid-19, è in questo senso particolarmente efficace per coordinare il gruppo – scrive ancora Andrighetto- e facilita la messa in atto di comportamenti collettivi per il raggiungimento dell’obiettivo”. Cerchiamo quindi di percepirci come un’insieme e collaborare per uscire dall’emergenza, proteggendo i nostri cari e le persone intorno a noi. Sforziamoci per riconfigurare le nostre giornate, riuscendo a creare una routine come ci consiglia Scott Kelly, un astronauta delle NASA ora in pensione, che ha trascorso quasi un anno sulla Stazione Spaziale Internazionale. Se essere bloccati in casa può essere una grande sfida, infatti, non di meno lo è vivere nello spazio per lungo tempo. Cercare di essere creativi e di nutrire il nostro cervello con quelli che sono gli interessi e le nostre passioni. Connetterci con noi stessi andando a curiosare nelle nostre radici più profonde ci consentirà sia di sopravvivere adesso ma anche dopo, dopo che finirà questa situazione d’emergenza ne raccogliere i frutti.
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E in più connettersi con gli altri è molto importante, così da continuare a scambiarci opinioni, pensieri o magari qualche allenamento di Yoga o Pilates 😉
La flessibilità emotiva e stabilità emotiva sono, infatti, fattori fondamenti e protettivi rispetto alla percezione del rischio. Questo è ciò che emerge dallo studio psicologico promosso dall’Università Cattolica, che è arrivato ha raccolto quasi 3.000 voci in pochi giorni. Le persone, dunque, sembrano essere “più in grado di affrontare situazioni incerte, gestire situazioni di stress e regolare le emozioni negative come l’ansia e la rabbia – adattandosi meglio – quando mettono in campo delle risorse mentali in grado di ridurre i livelli di preoccupazione, e di impatto sociale del virus. L’ottimismo è quindi un altro fattore protettivo importante che permette, anche di fronte a una preoccupazione, di sentirne meno gli effetti”. Un mantra di vita particolarmente utile in queste settimane così dure è quello dello psicanalista britannico Bion, che mi risuona da anni permettendomi di andare avanti: PENSARE IN MEZZO ALLA TEMPESTA.
Forza cittadini <3